sabato 11 giugno 2016

Elena Ferrante - Storia di chi fugge e di chi resta

Mentre continuano a proliferare le teorie sulla presunta identità di Elena Ferrante (l’ultima teoria, espressa da Marco Santagata, vorrebbe si trattasse di Marcella Marmo, ordinaria di storia contemporanea all’università Federico II), il successo della sua tetralogia L’amica geniale nel mondo è stato tale che si è deciso di farne una serie tv di quattro stagioni (da otto episodi ciascuna). Giunto personalmente al terzo volume, ovviamente in ritardo rispetto al resto del pianeta (ho iniziato a interessarmene quando in tutte le librerie di Londra ho trovato esposti tutti i libri della saga tradotti in inglese), devo dire che il mio giudizio al riguardo sta peggiorando: beninteso, riconosco il valore letterario dell’opera e l’ambiziosità del progetto (unire microstoria e macrostoria attraverso il racconto di amicizia e di ambiente, un po’ in stile romanzo popolare dell’Ottocento), così come la bravura della Ferrante come scrittrice, e non voglio certo arrivare agli eccessi snobistici di un Giorgio Montefoschi, che qualche settimana fa ha pomposamente dichiarato su “Sette”: «Ho letto un po’ di pagine. I suoi mi sembrano libri da portineria. Da ballatoio. Qualità letteraria: zero». Purtroppo, se il secondo capitolo mi era piaciuto meno del primo, questo terzo capitolo mi è piaciuto anche meno del secondo, gravato com’è da tanta, troppa zavorra che in alcuni casi lo rendono simile a una soap. Ed è un peccato, perché gli spunti sono molti. Come dice programmaticamente il titolo, Storia di chi fugge e chi resta parla del confronto tra chi rimane e chi se ne va da un luogo che appare senza prospettive, il rione di Napoli (che già nel prologo ambientato ai nostri giorni appare desolato), ma anche il posto di lavoro e la vita familiare, smarrendo così le proprie radici e la propria identità. Ovviamente, questo confronto è tutto tra le due amiche Elena (Lenù) e Raffaella (Lila), come sempre in un mix di competizione, amore, odio e meschinità, ma soprattutto all’insegna dell’ambivalenza e della subalternità («Non c’era modo con lei di acquietarsi, ogni punto fermo del nostro rapporto – spiega Lenù – prima o poi si rivelava una formula provvisoria, presto le si smuoveva qualcosa nella testa che la squilibrava e mi squilibrava. […] Io, malgrado tutti i miei cambiamenti, seguitavo a esserle subalterna. Di quella subalternità sentii che non sarei mai riuscita a liberarmi e questo mi sembrò insopportabile»). Le due si allontanano ma finiscono sempre per ritrovarsi, come se l’una non potesse esistere senza l’altra: questa volta però i ruoli sono capovolti, perché Lenù cade in un vortice mentre Lila ha già toccato il fondo e non può fare altro che risalire. Lenù ha appena pubblicato il suo primo romanzo, in gran parte autobiografico, che ottiene un buon successo di critica; vive insieme e sta insieme a un giovane professore, Pietro Airota, tranquillo e noioso intellettuale che ottiene una cattedra universitaria di ruolo (per meriti paterni, secondo le malelingue). Si sposa, resta incinta, va in crisi col marito, non riesce più a scrivere niente, flirta con altri, resta di nuovo incinta, rivede il suo innamorato Nino Sarratore (ex di Lila e forse padre di suo figlio, e ora sposato con un’altra), ha di nuovo l’ispirazione letteraria e pianta Pietro e le figlie. Lila, che è rimasta a Napoli, lavora invece in una fabbrica di salumi dove il sopruso e la molestia sono la legge, quindi si mette a studiare programmazione e accetta di mettersi al servizio dei Solara (i boss camorristi del rione) per la gestione di un computer. Il periodo è quello tra gli anni Sessanta e Settanta, sono gli anni della politicizzazione esasperata, degli scontri tra comunisti e fascisti, della lotta operaia, delle riunioni, della sinistra extraparlamentare, dei comunisti al caviale, della violenza e della contestazione nei confronti dell’autorità. Raccontando la storia delle sue protagoniste con un occhio tipicamente femminile, la Ferrante continua a esercitare il solito sguardo critico nei confronti degli uomini, nel senso sia dei violenti maschi napoletani sia di intellettuali di sinistra, con una visione del sesso spesso senza senso e degradante. Sullo sfondo, c’è sempre il rione maledetto, che si ripresenta sempre anche se sei fuggito, con tutta la sua fauna umana chiassosa e volgare, le sue logiche e i suoi rituali.

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