domenica 27 settembre 2015

Bill Willingham, Mark Buckingham, Lan Medina, Steve Leialoha, Craig Hamilton - Fables. Fiabe in esilio

Ha un che della fantasiosa irriverenza del Neil Gaiman di Sandman e American Gods e della saga di Geralt lo strigo di Andrzej Sapkowski questo primo capitolo della saga di Fables di Bill Willingham, che immagina un universo un po’ dark in cui uomini e fiabe convivono: le favole sono esuli sulla terra dopo essere state cacciate da un essere chiamato l’Avversario che, forte di un esercito gigantesco, ha distrutto tutti i mondi in cui è giunto, e vivono a New York in una comunità integrata, Favolandia, con sembianze umane per mascherare le loro fattezze. C’è stata una tregua che ha fatto cessare ogni ostilità tra loro: a preservare l’ordine sono il sindaco Old King Cole, il vicesindaco Bianca Neve (donna pratica e risoluta) e lo sceriffo Luca Wolf, il lupo cattivo delle favole, dotato di un tipico umorismo caustico e tagliente hard boiled. Brevi cenni (oltre a un racconto testuale alla fine) ci spiegano cos’è successo ma poi la storia si sviluppa come un semplice giallo (la misteriosa sparizione e sul presunto omicidio della sorella di Bianca Neve, Rosa Rossa) piuttosto lineare. Willingham si diverte con le citazioni (la spada per affrontare il Jabberwocky di Alice attraverso lo specchio, il leone Aslan delle Cronache di Narnia, l’aiutante di Biancaneve che è una scimmia con le ali del Mago di Oz), abbonda di ironia (non bisogna mai tirare in certi argomenti, come non discutere mai di igiene con un troll del ponte, non accettare mai ricette per lo stufato da una strega della foresta, e soprattutto non nominare mai i nani a Bianca Neve) e presenta i suoi personaggi, stupendo per capacità di sintesi, reinvenzione e caratterizzazione dei personaggi: la Bella e la Bestia sono una coppia con problemi coniugali (lui si trasforma in Bestia quando si arrabbia), il Principe Azzurro ha sposato tutte le principesse o le belle delle fiabe in sequenza e ha divorziato o le ha comunque cornificate e ora rimorchia cameriere dei locali per trasferirsi a casa loro, Jack e il fagiolo magico si è dedicato all’e-commerce, Barbablù pratica la scherma ma ha comunque un passato di uxoricida, Pinocchio cerca la Fata turchina per vendicarsi del fatto che lei l’ha trasformato in bambino vero interpretando il suo desiderio troppo alla lettera («Ho più di tre secoli e non ho ancora raggiunto la pubertà. Voglio crescere. Voglio che mi scendano le palle. Voglio scopare»). Solo il lupo ha l’ombra a forma di lupo e si trasforma per un istante mostrando il suo vero aspetto.

giovedì 24 settembre 2015

Donna Tartt - Il cardellino

Se ne è fatto un gran parlare e ha sollevato lodi e apprezzamenti ma anche critiche e giudizi negativi questo Il cardellino, romanzone di 900 pagine capace di vincere il Premio Pulitzer 2014 e scritto da un’autrice amatissima sia dalla critica sia dal pubblico statunitense come Donna Tartt, talmente perfezionista da scrivere un romanzo ogni dieci anni (anche se per me finora era una perfetta sconosciuta). Certo, è bene premettere che alcune di queste critiche sono del tutto giustificate: Il cardellino parla di un protagonista drogato, truffatore e mentitore portato all’autoindulgenza in cui non tutti possono essere portati a identificarsi, e soprattutto è lunghissimo, prolisso, ipertrofico, con squilibri e lungaggini dovuti a un profluvio maniacale di dettagli, ma, nonostante tutti i suoi difetti, affascinante e scritto benissimo (anzi, proprio il fatto di essere scritto benissimo permette di superare tutte le sue parti inutili e ridondanti). Racconta la storia di Theodore Decker, un ragazzino di 13 anni newyorkese che perde la madre in un attentato terroristico al Metropolitan Museum di New York, tragico evento che segna in maniera indelebile la sua personalità. Si ritrova accanto a un uomo agonizzante da cui riceve un anello d’oro e un incarico enigmatico, ma soprattutto esce portandosi via un quadro del 1654, Il cardellino appunto, opera del maestro olandese Carel Fabritius, allievo di Rembrandt e (ironicamente) moto anche lui per l’esplosione di un magazzino di polvere da sparo. Proprio questo quadro è il filo conduttore narrativo ed emotivo di tutto il romanzo, che rappresenta la fine dell’infanzia e l’irruzione in un mondo improvvisamente ostile e, contemporaneamente, diviene lo specchio del protagonista, il suo più grande tesoro ma anche la sua più grande maledizione: d’ora in poi Theo vivrà in funzione della paura di venire scoperto ma non riuscirà mai a staccarsi da esso, come unico appiglio alla felicità perduta nel suo duro e triste peregrinare di situazione in situazione. Adottato da una ricca famiglia newyorkese con qualche problema psicologico (se non psichiatrico), i Barbour, viene poi trascinato dal padre alcolizzato e baro a Las Vegas, non quella scintillante dei casinò ma una periferia marcia e polverosa, un vero e proprio non-luogo dove Theo completa la sua iniziazione negativa tra adulti inadeguati, falsari e droghe: qui conosce Boris, un altro adolescente alla deriva, con cui vive un’esistenza alla deriva tra alcol e droghe, senza alcuna figura di riferimento. Tornato da fuggiasco a New York dopo aver perso il padre, adottato di fatto dall’antiquario Hobie, Theo proseguirà nell’abuso di droghe e inizierà una carriera di truffatore e falsario che gli porterà qualche problema; rientrerà in contatto con i Barbour, si fidanzerà con l’algida stronza Kitsey (che lo cornifica con l’amore della sua vita che però non può sposare per questioni sociali) e soprattutto rivedrà Boris, ormai divenuto un malavitoso di livello che gli dirà di aver smarrito il suo preziosissimo quadro che Theo pensava essere al sicuro. Il romanzo è tutto narrato in prima persona, a posteriori, da un Theo ormai adulto da un albergo di Amsterdam 14 anni dopo l’attentato, nel bel mezzo della svolta thriller che la Tartt imprime al libro nella seconda parte, e sorprende che una donna riesca così bene ad assumere il punto di vista di un uomo, soprattutto di uno come Theo, un protagonista nascosto (come mostra genialmente la copertina tagliata che nasconde il quadro), alienato e bloccato dalle sue paure e dai suoi fantasmi. Romanzo di formazione morale (ma mai moralista) con echi dickensiani (Dickens viene citato espressamente quando Hobie dichiara riferendosi a Boris: «Me l’ero sempre immaginato come l’Artful Dodger di Oliver Twist»), Il cardellino potrebbe definirsi la storia del rapporto tra una persona e un oggetto, ma anche come un’analisi dell’elaborazione del lutto che diventa sofferenza e fuga dal nonsenso dell’esistenza («Qualunque cosa ci insegni a parlare con noi stessi è importante: qualunque cosa ci insegni a cullarci fino a uscire dalla disperazione»), dei tanti tipi di amore o di legame che si vengono a creare tra le persone, della ricerca di affetto, della ricchezza sterile e del potere dell’arte di costruire un immaginario affettivo (non solo il dipinto per le correlazioni con la madre, ma anche dell’onnipresente personaggio di Pippa, la nipote di Hobie, perenne oggetto d’amore di Theo che viene mitizzata e circonfusa nella sua immaginazione). A parte gli sproloqui, le lungaggini (nell’ultima parte ambientata ad Amsterdam con Theo a letto in albergo e impossibilitato a ritornare a New York in quanto privo di passaporto ho vacillato anch’io) e le esagerazioni nelle descrizioni degli ambienti (e perfino delle metodologie di restauro!), è una grandissima lettura: Theo è un essere orribile e discutibile, ma ci ritroviamo a fare il tifo per lui, a soffrire per le sue delusioni e a esultare per come riesce sempre a farla franca (il ruffianissimo finale è emblematico di ciò). Soprattutto, la parte ambientata a Las Vegas è fantastica e fa capire che ci troviamo di fronte a una scrittrice eccezionale.

martedì 8 settembre 2015

Franco Cardini - Francesco Giuseppe

In preda a una sorta di esaltazione asburgica mi sono messo a leggere questo bel libretto di Franco Cardini e pubblicato da Sellerio nel consueto stile colloquiale e divulgativo ma mai banale della collana “Alle Otto della Sera”, basata sulla trasmissione di RadioDue, questa volta basato sull’imperatore Francesco Giuseppe, o Cecco Beppe come si diceva un tempo in Italia (dove, fino a non troppo tempo fa, veniva abbastanza esecrato e definito l’impiccatore, l’uomo della forca e della tirannide, colui il quale che aveva fatto morire Cesare Battisti), un grande protagonista dell’Europa tra Otto e Novecento, il personaggio che (regnando per 68 anni, al 1848 al 1916) più di ogni altro ha incarnato la finis Austriae e la finis Europae, il fasto e la disperazione di un’epoca e un continente votato alla morte. Costretto ad accettare molte cose che non gli piacevano (il nipote Francesco Ferdinando come erede, l’antisemita Lueger come sindaco di Vienna, la Prima Guerra Mondiale che lui non voleva e di cui non vide la fine), fu un perdente della storia e la sua morte coincise con quella dell’Impero, ma il suo mito è sopravvissuto e resiste ancora oggi (io stesso ho visto con i miei occhi gente piangere davanti alla sua tomba nella Cripta dei Cappuccini a Vienna). Ovviamente Cardini descrive i tratti principali del carattere dell’imperatore (per nulla amante della guerra, portato a una vita militare più vicina agli standard del pubblico impiego, molto tiepido nei confronti della cultura tedesca e seguace di un cattolicesimo rigido ma scettico di tipica marca asburgico-settecentesca) e gli eventi principali della sua vita (primo tra tutti, l’infelice storia d’amore con la moglie, la celeberrima imperatrice Sissi), così come i moltissimi lutti che lo colpirono (la cugina Matilde, arsa viva per colpa di una sigaretta nel 1867; il fratello Massimiliano, fucilato nello stesso anno in Messico di cui è divenuto imperatore per iniziativa di Napoleone III; il figlio ed erede Rodolfo suicida nel 1889 a Mayerling; la moglie Elisabetta uccisa da un anarchico a Ginevra nel 1898; il nipote Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914); la sua però non è una biografia ma un’analisi storiografica del lunghissimo periodo storico vissuto da Francesco Giuseppe, un secolo iniziato con la Rivoluzione francese e finito con la Prima Guerra Mondiale, che ha visto la fine di quel “mirabile mostro” (secondo la definizione di Samuel Pufendorf) che era l’impero romano-germanico e sciolto nel 1806 da Napoleone, e la nascita dell’Impero austriaco (poi Impero austroungarico), con tutte le difficoltà che questo comportò (prima tra tutte la linea espansionistica ed egemonica prussiana di Bismarck che mirava a scalzare il primato prevalentemente dell’Austria e spingerla a una sorta di balcanizzazione). Cardini mostra come Francesco Giuseppe fosse il perfetto allievo del principe Klemens von Metternich, tradizionalmente alfiere della reazione e grande regista della Santa Alleanza ma ancora prima fautore di un dualismo austro-francese e ammiratore di Napoleone (cui diede in moglie Maria Luisa d’Austria, sorella dell’imperatore Francesco I), come lo sarebbe stato di suo nipote Luigi Napoleone, futuro Napoleone III; ministro di un impero sovrastatale e sovranazionale, Metternich aveva una bestia nera, il nazionalismo e il patriottismo, forze centrifughe che avrebbero fatto esplodere l’Europa impedendo alle nazioni di vivere insieme sotto un’unica autorità e, alla lunga, uccidendo anche la pace. Per questo, contrario a qualunque libertà nazionale, era però convinto che bisognasse dare qualche riconoscimento alle nazioni per impedire l’affermazione delle istanze più estremiste. Per la stessa ragione, gli Asburgo (e molti loro collaboratori come il maresciallo Radetzky, per fare un nome molto noto a noi italiani) ebbero sempre una simpatia maggiore per la sinistra socialista, preferendolo al liberalismo nazionale che avrebbe frantumato l’impero: «L’impero d’Austria era un mondo in cui l’autoritarismo si era ampiamente e progressivamente aperto ai valori costituzionali, dove le opposizioni, socialiste e anarchiche, venivano profondamente rispettate, era un mondo insomma in cui la libertà e le libertà democratiche si stavano lentamente ma progressivamente affacciando. In questo mondo conservatore e autoritario, però nello steso tempo rispettoso di sudditi che sono anche cittadini, Francesco Giuseppe gioca uno stranissimo ruolo: è un uomo senza dubbio diffidente delle novità, un misoneista, che però allo stesso tempo si trova a essere un continuo innovatore». Proprio l’apertura alle istanze nazionali come quella ungherese (per la quale si spesero molto in prima persona la moglie Elisabetta e il figlio Rodolfo), riconosciuta ufficialmente con la diarchia austroungarica, portò al sorgere di tensioni da parte degli slavi e del panslavismo, il cui grande patrono era l’imperatore slavo per eccellenza, lo zar, e quindi con la Russia ormai protesa sui Balcani. Insomma, forse nel centenario della Prima Guerra Mondiale siamo portati a rivalutare chi è stato il vero vincitore, in anni (come i nostri) in cui gli Stati nazionali (usciti vincitori da quel conflitto) sono ormai alle corde mentre le esperienze plurinazionali (come l’Impero asburgico) sono tornate di grande attualità. Una curiosità: in occasione della battaglia di Lissa del 1866 il telegramma dell’ammiraglio italiano Persano fu vergato, secondo gli usi dello Stato Maggiore piemontese, in francese, mentre l’ammiraglio austro-ungherese Wilhelm von Tegethoff, sbracciandosi dalla plancia della sua ammiraglia, gridò ai marinai dell’Imperial Regia Marina: «G’avemo vinto, fioi», in veneto, lingua che si parlava ordinariamente nelle marinerie dell’Adriatico. Un bello schiaffo in faccia a decenni di retorica patriottarda su libri di testo miranti a raffigurare l’Austria come cattiva e Francesco Giuseppe come l’impiccatore.

venerdì 4 settembre 2015

Joseph Roth - La marcia di Radetzky

Reduce da un viaggio a Vienna mi sono lanciato alla scoperta di uno scrittore a me sconosciuto ma considerato il più grande cantore della finis Austriae, Joseph Roth, iniziando da La marcia di Radetzky, bellissimo e dolente romanzo intitolato come il celeberrimo brano di Johann Strauss, conosciuto da tutti in chiave pop come la chiusura del Concerto di Capodanno di Vienna ma in realtà composto per celebrare la vittoria degli austriaci a Custoza nel 1848 e divenuto il simbolo delle vittorie dell’Impero asburgico. A dispetto di questo titolo trionfale, il romanzo si apre con una sconfitta militare (la battaglia di Solferino del 1859) e continua con il racconto del tramonto di un Impero multietnico come quello austroungarico e di un intero mondo, travolto dalla Prima Guerra Mondiale e dalle nuove istanze politiche e sociali (il socialismo, le identità nazionali) che si stanno affermando in Europa, ma ancora prima profondamente malato e inesorabilmente avviato all’autodistruzione, assimilabile alla decrepitezza di Sua Maestà Apostolica Francesco Giuseppe che, sempre più vecchio, veglia sui sudditi con sguardo paterno e rassicurante, ignaro dell’avvicinarsi della fine («pareva essere rimasto chiuso nella sua fredda ed eterna, argentea e spaventosa senilità, come in una corazza di prezioso cristallo»). Roth racconta tutto questo a posteriori con un fatalismo programmatico e inesorabile e lo veicola alla storia della famiglia Trotta, attraverso tre generazioni, sino alla sua estinzione, che coincide con quella dell’Impero di cui è la perfetta incarnazione. Una storia nata con il luogotenente di fanteria Joseph Trotta, che salva la vita all’imperatore durante la battaglia di Solferino e diventa il barone Joseph von Trotta di Sipolje: un rigido militare tutto d’un pezzo che, un po’ assurdamente, pretende che il suo eroico gesto venga espunto dai libri di storia per le scuole perché non raccontato in modo veritiero; suo figlio, Franz, è un altrettanto rigido e monotono sottoprefetto della burocrazia asburgica, talmente assimilato alla sua funzione da giungere ad assomigliare anche fisicamente all’imperatore (e a morire pochi giorni dopo di lui); infine, Carl Joseph, il nipote dell’eroe di Solferino, sembra destinato a una felice carriera militare, ma in seguito a uno scandalo e al senso di colpa (causa involontariamente la morte in duello del suo migliore amico, il dottor Demant, per aver accompagnato a casa la moglie una sera) sceglie di lasciare il nobile reggimento dei dragoni di cui fa parte e si fa trasferire in fanteria, in un estremo e fangoso avamposto orientale dell’Impero, al confine con la Russia, dove sperimenta il vuoto, lo spaesamento e la solitudine, e precipita nell’alcol, nel gioco d’azzardo e nei debiti. Decide di cambiare vita e di dare le dimissioni dall’esercito proprio allo scoppio della guerra, ma la cosa è considerata vigliaccheria ed è costretto a tornare in servizio per essere ucciso subito, senza neanche aver combattuto. Attraverso il difficile rapporto padri-figli (gerarchizzato in un ordine di tipo antico e caratterizzato da una totale assenza di dialogo), Roth riesce a esprimere il vuoto e lo spaesamento di un mondo in crisi di valori (è indicativo che i militari recitino una parte a cui non credono più nemmeno loro e che è semplicemente incomprensibile per i borghesi) e la certezza di andare verso una guerra che non sarà possibile vincere («Noi tutti non esistiamo più», dice il conte Chojnicki), il tutto sotto lo sguardo benevolo dell’imperatore, i cui ritratti campeggiano per tutto il romanzo, «onnipresente tra i suoi sudditi come Dio in terra». Anche lo stile narrativo riflette questa impostazione: scritto in terza persona, il romanzo segue la tecnica dei punti di vista dei tre Trotta e dell’imperatore, vero protagonista aggiunto della vicenda e, in ultima analisi, altra figura paterna con cui non c’è dialogo e simbolo di un ordine ormai superato. Moltissimi sono i momenti memorabili e toccanti (l’attendente Onufrij che torna al suo paesino per recuperare il denaro necessario per salvare l’onore del sottotenente; il dolore di Carl Joseph di fronte alla morte della moglie del brigadiere Slama; l’inesorabile attesa del duello del dottor Demant; la morte del vecchio cameriere Jacques; la descrizione del vecchio imperatore che non ricorda più le cose e riceve l’omaggio e la benedizione dell’anziano di una comunità ebraico-orientale; le partite di scacchi tra il sottoprefetto Trotta e il dottor Skowronnek; l’incontro tra il sottoprefetto e Francesco Giuseppe a Schönbrunn; la morte dell’imperatore), anche se bisogna stare attenti: il rischio di deprimersi e di cadere nella tristezza supera veramente il livello di guardia.

giovedì 3 settembre 2015

Miss Black - Oscuri abissi di desiderio

La Londra vittoriana, l’East End, il quartiere di Whitechapel, Jack lo Squartatore, i pub e le prostitute, sesso a buon mercato e violenza: è innegabile che questi elementi siano costante fonte di ispirazione per libri, film e serie televisive, quindi perché non scriverci sopra anche un bel romanzone erotico? È quello che deve aver pensato con questo Oscuri abissi di desiderio Miss Black, misteriosa autrice la cui biografia riporta aver «lavorato per diversi anni come mistress, in Italia e all’estero. Si è ritirata e vive in Gran Bretagna. Scrivere per lei è un hobby». Poi, se si va a vedere la quantità di titoli scritti, tutti in ambito hard/BDSM con qualche commistione Urban Fantasy e (soprattutto) con delle copertine agghiaccianti, si comincia a sospettare che Miss Black sia una furba iniziativa editoriale per sfruttare il meccanismo dell’autopubblicazione in ebook. In questo caso, dopo aver notato la raffinatissima copertina (che mostra una tipa dalle gambe divaricate su uno sgabello a cui è stata tagliata la testa, così puoi immaginarti chi vuoi al suo posto oppure puoi anche fare a meno di farlo e andare subito al sodo, perché tanto la testa non serve visto che le donne sono solo degli oggetti. Complimenti!), veniamo introdotti alla storia, ambientata nel fatidico 1888, quello in cui Jack lo Squartatore terrorizzava l’East End. La protagonista, Elisabeth Currant, di estrazione medioborghese ma caduta in disgrazia in seguito alla morte del padre e al disastro economico della sua famiglia (sua madre e suo fratello sono finiti in carcere per debiti), è finita a lavorare in una workhouse (una di quelle terribili strutture per indigenti dell’epoca vittoriana, dove si veniva mantenuti male per lavorare come bestie) dalla quale scappa. Per strada viene letteralmente “raccattata” da sir Louis Roswell Spencer, un ricco gentiluomo che sta indagando (di persona) sulla morte di una donna uccisa nell’East End che è stata ritrovata vestita da prostituta ma che in realtà è la figlia di un suo amico, e che con ogni probabilità è stata uccisa da una mano diversa da quella dello Squartatore (che prediligeva il coltello e gli sventramenti, mentre questa poverina è stata ritrovata strangolata). Louis porta Elisabeth a casa, la lava, la nutre, la presenta alla moglie (un’isterica perbenista che non l’ha mai capito e quindi lui non l’ha mai amata) e le offre un lavoro: indagare insieme a lui sull’omicidio di Whitechapel. Il giorno dopo ci finisce a letto, quello dopo ancora le compra una casa e la trasforma in una mantenuta (la moglie lascia misteriosamente la città per non fare più ritorno). Lei non si oppone: è innamorata persa di lui e in qualche modo si sente riconoscente, si scopre insaziabile ma, agli occhi di sua madre (che nel frattempo ha trovato un nuovo marito pronto a tirarla fuori dal carcere), si fa passare come istitutrice del figlio di sir Louis. Siccome però nessuna domestica accetta di andare a lavorare da lei in quanto mantenuta degna di riprovazione sociale e amante rumorosa durante gli amplessi, assume un donnone che tutti rifiutano perché in passato ha dato fuoco per sbaglio a una casa. Il libro non cerca affatto di nascondersi e regala scene torride e bollenti a ripetizione, con un linguaggio assolutamente esplicito e a volte colorito (e una preoccupante insistenza sul verbo “titillare”), con dei momenti di pura follia (come quello dell’utilizzo erotico del manganello di un bobby) ma, tutto considerato, c’è più brio rispetto alla meccanicità finto-intellettuale di 50 sfumature. Cioè, ai fan del genere può anche piacere, anche se è bene chiarire che siamo nel campo della pornografia pura. Io invece le scene di sesso le ho saltate in blocco dopo la terza e mi sono dedicato alla trama gialla, che purtroppo, a parte una puntata in un circolo spiritista, è del tutto inesistente per non dire ridicola. Certo, colpa mia: se leggi un titolo come Oscuri abissi di desiderio sai già a cosa vai incontro. Però l’ambientazione e il riferimento (del tutto pretestuoso) allo Squartatore mi avevano intrigato, e speravo in qualche cosa di più: qui tutto è, come sempre, un puro e semplice pretesto per mettere in scena l’intero catalogo delle posizioni più o meno note, e non basta infilarci la semplice differenza di classe tra i due protagonisti o una sottoveste d’epoca a suggerire l’idea di essere in periodo vittoriano. Anche perché le avventure dell’originale coppia di investigatori amanti (che vorrebbero passare anche per ironici e anticonformisti) non offrono alcun interesse. Sulla scrittura è meglio tacere. Agghiaccianti i dialoghi («Sai, è un bene che io ti abbia conosciuto adesso. Se fosse successo qualche anno fa avrei strepitato e smaniato, avrei sollevato senza dubbio uno scandalo, ti avrei sposata in sprezzo a ogni buon senso e avrei fatto di te la più infelice delle testarde indipendenti, costringendoti alla vita convenzionale e ipocrita delle signore della mia classe d’appartenenza. Così… così ho fatto di te una donna immorale, e ti si addice molto di più»).