sabato 8 agosto 2015

Rodge Glass - Voglio la testa di Ryan Giggs

Scrivere di calcio è difficile: il calcio è un mondo, capace di affascinare migliaia di persone di ogni estrazione sociale, che va ben al di là del terreno da gioco. Per questo scrivere un romanzo sul calcio (così come farci un film) è ancora più difficile: a memoria, solo Nick Hornby con Febbre a 90° e David Peace con Il maledetto United ci sono riusciti, realizzando due autentici capolavori (almeno per me, autentico malato di calcio inglese). A questi aggiungo volentieri questo nuovo Voglio la testa di Ryan Giggs di Rodge Glass, che mi ha letteralmente folgorato per la sua capacità di raccontare la fascinazione e l’ossessione che si può provare per questo mondo parallelo a quello reale che, in alcuni casi, appare più vero di quello reale. Ma se Hornby narrava la sua passione nevrotica e poetica per l’Arsenal e Peace la storia di un Mourinho ante litteram (Brian Clough) che litigava con una squadra per il suo odio personale verso il precedente allenatore, Glass racconta con i toni della tragicommedia l’immaginaria biografia di una altrettanto immaginaria stella mancata del firmamento calcistico inglese, Mike “Little Giggs” Wilson, emblema della mitica classe del 1992, quell’infornata di incredibili talenti del Manchester United (la squadra inglese di cui sono tifoso anch’io) che annoverava Paul Scholes, i fratelli Neville, David Beckham e soprattutto Ryan Giggs, forse il giocatore più grande della Premier League, un cavaliere senza macchia, un mito positivo dentro e fuori dal campo. Quella di Mike non è una semplice passione, ma un’autentica ossessione alimentata da suo padre con cui trascorre i pomeriggi all’Old Trafford (lo stadio dello United), a sua volta infettato dal padre che per primo ha acquistato l’abbonamento dopo la Seconda Guerra Mondiale e ha legato indelebilmente il nome della famiglia alla squadra: insomma, una specie di malattia ereditaria trasmessa per via maschile (la madre ne è del tutto estranea e non sa neanche di che cosa si sta parlando) e che fa sentire parte di un percorso di formazione e di un culto identitario (con cori raffinatissimi di questo calibro: “Mio padre mi dice di tifare City / Io dico COGLIONE ma che CAZZO dici / Meglio scopare un secchio col buco / Che tifare City un solo minuto...”). Purtroppo le cose non vanno come sperate, tradite da 133 maledetti secondi di un orribile pomeriggio di novembre 1992, quando il ragazzino prodigio delle giovanili chiamato da Ferguson a indossare la maglia della prima squadra si rende autore del peggiore debutto della storia della Premier League, avventandosi su un difensore avversario e rompendogli una gamba, rimediando un’identica frattura. Da questo momento inizia un penoso calvario, con il prestito al periferico Plymouth Argyle, la deriva personale, la depressione, l’abuso di alcol, il gioco d’azzardo: la giovane  promessa che sognava a occhi aperti un destino da campione (imperdibili i film che si gira in continuazione, e addirittura mitologico quello che si spara all’esordio in prima squadra, mentre aspetta che il pallone lanciatogli da Giggs gli finisca sui piedi) finisce così vittima di un’esistenza da emarginato. Scrive lettere accusatorie a Ferguson, Beckham e Giggs, che incolpa delle sue sfortune per nascondere il fatto che è un immaturo incapace di assumersi le proprie responsabilità. Giggs, da idolo di vita, si trasforma in ossessione e bersaglio del suo odio, perché rappresenta tutto quello che a Mike è stato negato dal destino: tra l’altro, è stato a causa sua, di un suo passaggio sbagliato, che Mike ha compiuto quella sciagurata entrata che gli ha stroncato la carriera. Ed ecco la svolta, la stagione 2008-09, quella definitiva dell’accoppiata Premier League-Champions League, quella che gli permetterebbe di fare finalmente i conti con la vita con la finale di Mosca contro il Chelsea, dopo che una prima occasione l’ha già avuta con il Treble del 1999 ma lui ha perso la finale di Champions League contro il Bayern Monaco perché si è tagliato le vene (poteva esserci lui in quella finale e invece gioca Jesper Blomqvist!) e ha già buttato alle ortiche la possibilità di mettere la testa a posto con una inaspettata paternità. Glass è bravissimo nel rovesciare la resa dei conti finale e a non cadere in facili allegorie o moralismi, e il suo modo di trattare il calcio è serio e competente, con la precisione del tifoso fanatico, non da intellettuale: ricostruisce i fatti di cui parla con precisione maniacale fin nei dettagli, mescola realtà e fantasia in maniera talmente convincente da non capire dove finisce l’una e inizia l’altra. Nel suo libro si ride parecchio, e spesso in maniera amara. Il suo stile di scrittura, poi, è molto personale e ambizioso nel suo mescolare tre persone (la prima, la seconda e la terza) a seconda della prospettiva sul protagonista, con l’aggiunta di una quarta, la voce dei media. Oltre alle problematiche sociologiche sollevate (il calcio come unica possibilità di riconoscimento sociale), Glass ricostruisce una cultura calcistica da working class che include alcol, sesso e musica (Smiths, Stone Roses, Happy Mondays): spietata è la sua accusa al calcio di oggi, in mano all'affarismo delle multinazionali, con i tifosi che continuano a considerare la squadra come qualcosa di proprio mentre in realtà sono del tutto marginali (lo United multimiliardario degli americani Glazers contrapposto con inspiegabile orgoglio all'altrettanto multimiliardario Chelsea di Abramovich). C’è però ancora una flebile speranza: l’FC United of Manchester (di cui diviene tifoso il fratello maturo di Mike, Guy), una piccola società gestita direttamente dai tifosi e quindi appartenente alla comunità e non alla Borsa. Il libro però non dimentica di essere innanzitutto un romanzo e non fa mai dei suoi numerosi spunti il fine della narrazione, ma tiene fisso l’obiettivo sul suo protagonista, nella cui follia (e immaturità) tutti noi tifosi (e uomini) in parte ci ritroviamo. Ottima traduzione e grandissima cura in questa edizione italiana a cura di 66thand2nd.

giovedì 6 agosto 2015

Javier Zanetti (con Gianni Riotta) - Giocare da uomo

Javier Zanetti è una leggenda. Per chiunque condivida la fede nerazzurra è semplicemente “il Capitano”, l’unico, inimitabile e insostituibile: 19 anni di Inter, di cui 15 da capitano, sempre in campo, a metterci la faccia, anche in anni di mediocrità, sofferenza e difficoltà. Un professionista esemplare, timido e schivo, capace di allenarsi anche il giorno del suo matrimonio, uno che non ha mai fatto polemiche, che non è mai uscito dalle righe e che ha fatto della serietà la sua ragione di vita. Intendiamoci, stiamo parlando di uno a cui l’Inter ha distrutto la carriera, di un campione che in qualsiasi momento avrebbe potuto andarsene da qualche altra parte, al Barcellona o al Real Madrid (dove ha pure rischiato di finirci, nell’estate del 2001), per vincere finalmente qualcosa. E invece no, è rimasto in nerazzurro, fino alla fine, da vera bandiera, per conoscere finalmente le vittorie e il momento più grande in assoluto, l’irripetibile Triplete del 2010. Ora che si è ritirato (al termine della stagione 2013-14) non è per niente la stessa cosa, e non solo perché l’Inter è tornata nella mediocrità. Zanetti era una certezza, un esempio positivo in un calcio caotico e mercificato, un punto riferimento nella vita di tutti i tifosi: c’era, e tanto bastava. Tutti quelli che ne sentono la nostalgia possono leggere questa autobiografia scritta con l’aiuto del giornalista Gianni Riotta, che ripercorre le gesta del Capitano dalla sua infanzia difficile a Buenos Aires, caratterizzata da tanti sacrifici e dall’etica del lavoro (faceva il muratore insieme a suo padre e consegnava il latte alzandosi alle tre del mattino), passando per le prime squadre (Talleres e Banfield), fino all’approdo all’Inter nell’estate del 1995, nella prima campagna acquisti di Massimo Moratti come presidente. Una storia fatta di giocatori e allenatori, di successi (pochi) e delusioni (molte), scolpita indelebilmente nella memoria di tutti i tifosi nerazzurri: il rigore non dato a Ronaldo nel 1998, la Coppa Uefa vinta a Parigi contro la Lazio, il 5 maggio del 2002 all’Olimpico, i successi di Mancini e Mourinho. Zanetti ripercorre ogni ricordo con saggezza e umiltà, com’è nel suo stile, senza mai dimenticare il suo ruolo istituzionale: ha una parola buona per tutti, eccede di affetto e indulgenza nei confronti di Moratti, ringrazia i tifosi, rivendica la pazzia dell’Inter come sua ragion d’essere e ricorda di quando in spogliatoio contrappose l’orgoglio nerazzurro allo sprezzante Marcello Lippi (uno che all’Inter è stato sempre fuori posto), senza però mai mancare di rispetto. L’unica volta in cui si permette di alzare un po’ la voce è nei confronti di Marco Tardelli, da lui definito l’allenatore più scarso con cui abbia mai lavorato (e questo lo sapevamo, basti ricordare che Tardelli è l’uomo del famigerato derby perso 6-0), e che tra l’altro lo voleva pure vendere. Non mancano particolari divertenti che mostrano uno Zanetti insospettabile, come quando ha fatto cantare e ballare Nagatomo al suo arrivo in squadra, o come la volta in cui la moglie lo ha portato in albergo dove non c’erano palestre e lui si è allenato prendendola in spalla e facendo sollevamento pesi. Ovviamente, grande spazio è dedicato al rapporto con Mourinho (che anche per Zanetti è semplicemente il migliore) e all’anno del Triplete, con aneddoti e rievocazioni delle partite cruciali di quella stagione (il derby stravinto 4-0, il confronto con la Roma, le partite di Champions contro Dinamo Kiev, Chelsea, Barcellona e Bayern Monaco, la serata di Madrid e il delirio per la conquista della Champions League), il grande legame con i compagni di quella squadra di fenomeni che fa capire ancora di più la grandezza del lavoro di Mourinho. Prima di chiudere, il nostro dedica qualche parola al suo impegno sociale con la Fondazione Pupi (che prende il nome dal suo soprannome), creata per aiutare bambini e ragazzi disagiati del quartiere in cui è cresciuto, e la sua decisione di continuare in società (al momento Zanetti è vicepresidente) per dare il suo contributo a migliorare il mondo del calcio che è ormai solo un grande circo mediatico. Insomma, la mia fede nerazzurra non mi rende assolutamente obiettivo nel giudicare questo libro: letterariamente vale meno di zero, come tutte le biografie dei calciatori, ma a chi importa? Se siete interisti come me, vi commuoverà.

domenica 2 agosto 2015

Alan Bennett - La sovrana lettrice

Con Alan Bennett si va sul sicuro anche quando ci si interroga sul potere dei libri e della lettura, come avviene in questo delizioso divertissement (culturalmente molto ricco ma mai pesante) intitolato La sovrana lettrice che ironizza con garbo sull’occasionale scoperta da parte della regina Elisabetta II d’Inghilterra (mai nominata esplicitamente) dei libri. Un giorno, infatti, l’ottantenne sovrana inseguendo i suoi cani, si imbatte per caso in una zona di Buckingham Palace vicino alle cucine dove è parcheggiato il furgone di una biblioteca ambulante e, per non fare brutta figura, prende un volume e nella settimana seguente lo legge. Come può una donna d’azione come lei dedicarsi a un’attività riflessiva come la lettura, lei che ha già visto il mondo dal vero e apparentemente non ha bisogno di vederlo attraverso altri occhi? È l’inizio di una nuova grande passione, coltivata grazie all’ex sguattero di cucina Norman, ora promosso assistente alla lettura della regina e incaricato di procurarle titoli da leggere ovunque, in camera, in carrozza e durante i suoi viaggi: lettrice tardiva, la regina vive nella paura di sembrare un’ignorante e per questo diviene vorace, scopre di aver conosciuto la maggior parte degli scrittori in questione ma di non averli mai conosciuti sul serio, rammaricandosi di non averli approfonditi prima di incontrarli. Ovviamente, questa passione ha ripercussioni su tutti coloro che le stanno attorno (familiari, servitù, staff, politici), tutti convinti che la sovrana sia preda della demenza senile e interessati a metterle i bastoni tra le ruote per salvare posizione personale e decoro della corona. Per tutti quelli che pensano che una trama e una tematica del genere possano suonare banali, devo dire che il messaggio pro lettura di Bennett ha argomenti molto profondi (leggere significa scoprire la vita di qualcun altro e, di riflesso, porta a dare importanza ad aspetti prima ignorati, anche a proposito di se stessi, e inevitabilmente la lettura porta al desiderio di scrivere a propria volta, per far sentire veramente la propria voce); per il resto, c’è la classica ironia dell’autore, che non perde l’occasione di sbeffeggiare l’ignoranza abissale che una certa classe blasonata possiede al di là del suo status sociale (la stessa regina possiede numerose biblioteche che però non ha mai frequentato). Divertente colpo di scena finale.