venerdì 25 aprile 2014

Reed Albergotti, Vanessa O'Connell - Il texano dagli occhi di ghiaccio

Più si sale in alto, più la discesa è fragorosa e dolorosa. Una morale spesso abusata, ma mai così vera come nel caso del più grande inganno sportivo mai perpetrato, quello di Lance Armstrong, l’alieno (texano, per l’appunto) che è guarito dal tumore e che, per sette anni consecutivi (dal 1999 al 2005), ha vinto (anzi, stravinto) il Tour de France grazie al sistema di doping più sofisticato della storia senza mai farsi scoprire, paradigma di tutte le narrazioni tossiche legate allo sport come redenzione e del campione buono simbolo di riscatto di cui si nutrono i media, con il relativo finto scandalo moralista del giorno dopo, quando il truffatore è stato smascherato e tutti si sentono in qualche modo defraudati di qualcosa e in dovere di attaccarlo. A questo scandalo è dedicato questo bellissimo libro Il texano dagli occhi di ghiaccio, il cui titolo italiano allude (con scarsa fantasia) all’omonimo film di Clint Eastwood ma che in realtà corrisponde a Wheelman, volumone scritto da due giornalisti del “Wall Street Journal”, Reed Albergotti e Vanessa O’Connell: magari non dice niente di nuovo sull’argomento ma, attraverso il contributo di oltre cento persone intervistate e un accurato lavoro di ricostruzione e contestualizzazione, arriva piuttosto a mettere la pietra tombale definitiva sulla truffa dell’invincibile ciclista americano. Una truffa che, tra l’altro, è stata candidamente ammessa dallo stesso Armstrong, in un’intervista televisiva con Oprah Winfrey, nonostante anni passati a professare innocenza (un atleta sopravvissuto al cancro, che era stato vicino alla morte, non si sarebbe mai dopato), dopo che l’USADA (l’agenzia antidoping statunitense) e aveva già provveduto a inchiodarlo e l’UCI (l’Unione ciclistica internazionale) gli aveva cancellato tutte le vittorie, sancendone la damnatio memoriae. Personalmente, da grande appassionato di ciclismo, ho sempre detestato visceralmente il texano, anche quando tutti lo acclamavano come esempio per i giovani, l’atleta capace di vincere nello sport e nella vita, di sconfiggere il cancro e di tornare a trionfare in pista, con coraggio e tenacia, mentre pochissimi detrattori ricordavano che Armstrong, prima del tumore del 1996, era un ottimo corridore da classiche ma non era mai stato competitivo nelle grandi gare a tappe, né in salita né a cronometro. Il copione era sempre lo stesso: Armstrong tramortiva gli avversari a cronometro, li controllava nelle tappe più insidiose con l’auto della squadra più forte del lotto e li finiva sugli arrivi in salita staccandoli inesorabilmente. Vinceva il Tour, poi scompariva fino all’anno seguente. Si tratta di una storia indubbiamente triste, soprattutto considerando che il texano era diventato effettivamente un simbolo nella lotta contro il cancro, aveva aperto una propria fondazione (la Livestrong, abbondantemente sponsorizzata dal suo fornitore Nike) e aveva infuso coraggio in molti malati, rispondendo a messaggi con mail personali e consigli pratici, spesso con la specifica indicazione di quali medici consultare e interventi diretti presso gli specialisti per far ottenere un appuntamento. Il problema non è il doping in sé, visto che nel ciclismo sono tutti drogati (e lo dico senza paura di sembrare qualunquista) e che al principio olimpico dell’importante è partecipare non ha mai creduto nessuno (né ci hanno mai creduto gli antichi greci, figuriamoci), quanto l’agghiacciante falsità di un ambiente marcio fino al midollo che fa della corruzione e dell’omertà la sua unica ragion d’essere, una vera e propria multinazionale dell’imbroglio con ramificazioni ovunque, dal campo medico fino a quello economico-mediatico, capace di nascondere casi positività conclamata (nel caso di Armstrong, al Tour 1999 e al Giro di Svizzera 2001) e di schiacciare chiunque osasse insinuare dei dubbi. Oltretutto, nel 1999, cioè un anno dopo lo scandalo Festina (l’edizione del Tour vinta da Pantani, con ciclisti arrestati e portati in gendarmeria come criminali), la favola del reduce dal cancro in maglia gialla aveva salvato il ciclismo e la sua corsa più importante, diventando ogni anno più ricca, di retorica e soprattutto di denaro, non solo per Armstrong ma per tutto l’indotto a due ruote (emerge tra l’altro che tutte le compagne e amanti di Armstrong, compresa la rockstar Sheryl Crow, erano a conoscenza del suo utilizzo di sostanze dopanti, tanto che la prima moglie Kristin ricevette 15 milioni di dollari per non rivelare nulla). I due autori si domandano perché compagni di squadra, allenatori, sponsor e sostenitori finanziari abbiano collaborato alla menzogna, e rispondono che «la credulità della società di fronte all’evidenza sempre più lampante ha probabilmente qualcosa a che fare con il suo bisogno di un certo tipo di eroe. In quest’ottica, Lance è il prodotto inevitabile della nostra cultura e dell’intero mondo sportivo, tanto affamato di denaro da essere orma fuori controllo. Viviamo nell’Età dell’Oro della frode, in un’epoca segnata da una generale disponibilità a ignorare e giustificare i misfatti dei ricchi e potenti, con il risultato di ingigantire ogni menzogna e ampliarne il cammino distruttivo». Per fortuna, lentamente, il muro di gomma ha iniziato a cedere e i testimoni hanno cominciato a parlare, a cominciare dagli ex gregari Tyler Hamilton e Floyd Landis, quest’ultimo vincitore del Tour 2006 e radiato per doping qualche giorno dopo l’incoronazione sui Campi Elisi, quindi reo confesso e testimone decisivo nel raccontare una sordida storia (quella della U.S. Postal, la squadra di Armstrong) fatta di autotrasfusioni clandestine, cerotti al testosterone e siringhe di EPO. E, siccome la vita non perdona, dall’agiografa scritta dal vincitore a colpi di ottimismo e buoni sentimenti, si è passati all’accurata e chirurgica distruzione del perdente, cosa che questo libro fa benissimo, donando, a chi come me odiava il personaggio in questione, un certo qual piacere sadico. I due autori non si limitano infatti solo a ricostruire questo squallido spaccato di sport criminale (il racconto delle trasfusioni dei ciclisti sdraiati sul pullman è agghiacciante), ma aggiungono il ritratto dell’Armstrong uomo, già da ragazzino (promessa del triathlon) egoista e assetato di soldi, sesso e potere, conseguenza di una personalità disturbata, amorale, cinica e bara, incapace di accettare la sconfitta o l’ombra di qualcun altro e sempre pronto a litigare con i compagni di squadra e il patrigno. Un atteggiamento proseguito anche in seguito, quando il texano si è trasformato, più che in uno sceriffo, in un caporione della mafia, autore di minacce, intimidazioni e ritorsioni ai danni dei suoi nemici (cose che lo rendevano odioso anche quando si pensava fosse pulito), come avvenuto nel caso del nostro Filippo Simeoni, reo di aver rotto il muro di omertà sul doping e di aver connesso Armstrong al giro del tristemente famoso dottor Michele Ferrari: durante il Tour del 2004, il corridore italiano tentò la fuga di tappa ma la maglia gialla americana lo inseguì riacciuffandolo anche se non rappresentava una minaccia, mimando poi alle telecamere il gesto di cucire le labbra. Per non parlare delle querele fatte piovere su quanti osavano mettere in dubbio la sua onestà e i suoi tentativi di distruggere Greg Lemond, l’altro americano vincitore di tre Tour e da sempre accusatore di Armstrong e del sistema doping: proprio su Lemond e nel continuo tentativo di farlo passare come il campione “normale” che vince nello sport (nella fattispecie tre Tour de France) ma che, come le vittorie, conosce anche le sconfitte e capisce che per continuare a vincere dovrebbe doparsi e per questo si ritira, il libro appare meno convincente: magari è vero e Lemond è sempre stato un signore, ma ormai nel ciclismo, anche grazie ad Armstrong, non si crede più a niente.

venerdì 11 aprile 2014

Wu Ming - Altai

Se nella vita si evolve e si cambia, a maggior ragione cambiano gli scrittori (anche se collettivi). Nonostante avessero giurato che non avrebbero mai dato un seguito a Q, proprio in occasione del decennale dell’uscita di quel romanzo pazzesco, i Wu Ming (ex Luther Blissett) hanno pubblicato questo Altai, sequel atipico che ne riprende ambientazione (il Cinquecento) e (alcuni) personaggi ma che si pone come romanzo completamente autonomo e leggibile a sé. Q terminava con il suo eroe senza nome che poneva fine al suo peregrinare in tutta Europa spostandosi da Venezia a Istanbul, nel 1555: Altai ricomincia da questo passaggio finale e lo fa 15 anni dopo quegli eventi, nel contesto della Guerra di Cipro (1570-1573) combattuta dall’Impero Ottomano contro la Repubblica di Venezia, che sancì da un lato la conquista dell’isola del Mediterraneo da parte ottomana e dall’altra la fine della supremazia navale turca con la Battaglia di Lepanto, grandioso paradigma ideologico dello scontro di civiltà, per lungo tempo sbandierata come la battuta d’arresto dell’invasione ottomana dell’Europa, ma in realtà calata appunto nel contesto più ampio della Guerra di Cipro. La scena inizia a Venezia, nel 1569, con un attentato all’Arsenale di Venezia e con un nuovo protagonista, Emanuele De Zante, un agente dei servizi segreti veneziani che si trova braccato per un’identità (ebraica) che lui stesso aveva ripudiato (il suo vero nome è Manuel Cardoso) ed è costretto a scappare da Venezia per trovare rifugio altrove, a Ragusa, per poi finire a Salonicco, a Costantinopoli e a Cipro. Un protagonista dall’identità ibrida, prima cristiano converso, poi di nuovo ebreo ma transfuga nel mondo ottomano (molto più pluralista di molti potentati occidentali), che nella sua metamorfosi riflette in pieno la stratificazione culturale e linguistica dell’impero ottomano, e che serve per raccontare la Battaglia di Lepanto in maniera non convenzionale: come il protagonista di Q (che qui ricompare, vecchio ma ancora combattivo, con il nome di Ismail al-Mukhawi), Manuel sta infatti dalla parte sbagliata della storia ed è un fuggiasco, un personaggio di confine, a metà tra l’Occidente e l’Oriente, che rimane schiacciato in mezzo al conflitto di questi due mondi, come tutti coloro che cercano una terza via, un linguaggio nuovo di incontro e di compromesso, in quanto non funzionale alla logica dello scontro di civiltà (non a caso, durante la Battaglia di Lepanto arriva a metà, quando è troppo tardi), e devo dire che i Wu Ming sono riusciti a evocare e far rivivere questo scontro in maniera eccelsa: da veneziano, ho sentito il mio sangue ribollire nel leggere del folle comandante turco Lala Mustafa che a Famagosta fa decapitare i capitani veneziani e scuoiare vivo il governatore Marcantonio Bragadin, scatenando la violenza contro soldati e civili. Il romanzo non è ovviamente solo questo: piuttosto, è una riflessione sulla costruzione del nemico per la costruzione di un’identità, un po’ come fatto dal Cimitero di Praga di Umberto Eco, ma lo fa in maniera molto più complessa e convincente perché il personaggio di Manuel parte come elemento dell’apparato spionistico veneziano e finisce con il riconoscersi nel nemico. Nel corso del suo esilio in Oriente, Manuel finisce infatti per lavorare al soldo di Yossef (Giuseppe) Nasi, personaggio realmente esistito e già apparso da giovane in Q, una sorta di Bin Laden dell’epoca, un giudeo sefardita scappato dal Portogallo e passato proprio per Venezia prima di approdare alla corte del sultano Selim II e divenire suo consigliere personale: emblema del politico affascinante e carismatico, concepisce l’idea di finanziare l’attacco degli ottomani contro Cipro e ottenere in cambio dal sultano la corona dell’isola, secondo un progetto del tutto utopico di realizzare una nuova terra promessa che dia rifugio a tutti gli esiliati. L’inevitabile fallimento di Nasi corrisponde a una presa di coscienza di Manuel, che da cane («essere sottomesso, ansioso di compiacere l’uomo, come un servo devoto col suo signore») diventa l’altai del titolo (e della copertina), razza meticcia di falchi di una catena di monti asiatici («la caccia con il falco è questione di fiducia e di reciproco tornaconto. […] Non occorre far nulla, con un altai, e un buon falconiere fa il meno possibile. È la natura del falco che lo spinge in volo e gli fa conficcare gli artigli sulla preda. E vuoi che lo faccia per te, devi solo mostrargli qual è il suo vantaggio»): una morale amara, che funziona come ragionamento sulla libertà che non è mai una concessione dall’alto da parte di chi detiene il potere, ma una conquista che si ottiene dal basso. La trama, anche se lineare, è senza dubbio elaboratissima e raffinata, il gioco delle citazioni infinito (il secondo capitolo si apre con una citazione dell’ultima scena di Moby Dick per descrivere la barca su cui viaggia De Zan dopo l’esplosione dell’Arsenale), i personaggi sono molto più complessi e stratificati rispetto a Q (dove, a ben guardare, avevano ben poco background) e c’è un eccezionale lavoro sulla lingua, a livello sia polifonico (con l’utilizzo di tutte le lingue e i dialetti parlate nel bacino del Mediterraneo) sia narrativo (che ha previsto l’utilizzo di parole esistenti esclusivamente nell’italiano del 1569): nel complesso, però, il romanzo non ha quell’energia pazzoide e sgangherata, quella freschezza incosciente e quella scrittura secca e potente che mi aveva tanto catturato in Q, forse anche a causa di un tono dolente e tragico che lo rende del tutto diverso da quello battagliero e autoassolutorio del suo predecessore. Avercene sempre, comunque, di romanzi del genere…

martedì 8 aprile 2014

Victor Hugo - Il Novantatré

Parlare di Rivoluzione francese è difficile dal punto di vista storico, figuriamoci scriverci sopra della fiction. È quindi raro trovare delle opere letterarie ambientate in questo periodo capaci di mettere la Rivoluzione al centro e non solo come sfondo, e ancora più difficile è trovare opere colossali e problematiche come Il Novantatré, ultimo romanzo di Victor Hugo dedicato all’anno simbolo 1783, quello del Terrore e della guerra in Vandea, rivoluzione e controrivoluzione. Ancora più interessante perché scritto da un autore come Hugo che è partito monarchico e legittimista ed è stato allevato nel mito della Vandea (sua madre era di origine vandeana) per poi spostarsi sempre più a sinistra e rivendicare totalmente l’esperienza della Rivoluzione: Hugo ci catapulta lì, nel fitto delle foreste vandeane, nella guerriglia contadina, dove le armate controrivoluzionarie dormono in piedi nei cavi, costruiscono delle vere e proprie cittadelle sotterranee che sorprendono l’esercito regolare mandato da Parigi per combattere per la Rivoluzione. Poi siamo portati in mezzo al mare, di notte, su una nave che sta portando in Vandea un aristocratico esiliato, il marchese di Lantenac ma al momento ancora senza nome (lo scopriremo solo quando lui sesso lo leggerà in un editto che annuncia la sua condanna a morte), che è stato designato dagli aristocratici scappati in Inghilterra come capo della rivolta vandeana. A bordo della nave si registra una scena memorabile: uno dei cannoni della stiva è agganciato male e si libera durante una tempesta, comincia a rotolare e demolisce tutto cominciando ad aprire falle nello scafo, e si scatena come «un carro vivente dell’Apocalisse» e finisce per sembrare quasi la materializzazione della furia di Dio, tipico esempio della poetica di Hugo che vede l’uomo in balia di forze più grandi (la natura, la storia, la stessa Rivoluzione: «La rivoluzione è un fatto immanente, un fenomeno che urge da ogni lato, e che noi chiamiamo necessità»). Dopo una grade lotta per fermarlo, un cannoniere riesce a prenderlo e rilegarlo: Lantenac lo fa decorare e subito dopo fucilare per negligenza, e si dimostra una persona tutta d’un pezzo perché poi difende la sua scelta (perché la responsabilità era davvero del cannoniere) con il fratello della vittima che vuole ucciderlo per vendetta. Sbarcato in Vandea, organizza la resistenza cui mostra il lato peggiore, quello fatto di fucilazioni di prigionieri e donne. A Parigi la preoccupazione è tanta, e Hugo descrive l’incontro in un’osteria, di sera, tra Marat, Danton e Robespierre (ritratti nelle loro peculiarità: Marat nervoso e invasato, Robespierre tutto azzimato e Danton sbracato e volgare), i quali identificano ognuno il pericolo in un fenomeno diverso: secondo Marat sono le cospirazioni interne a Parigi, per Danton il fronte esterno delle potenze straniere che gravano sulla Francia, mentre Robespierre identifica il problema proprio nella Vandea e decide di inviare lì un delegato del comitato di salute pubblica perché faccia da commissario politico che si affianchi al comandante rivoluzionario che deve reprimere la ribellione militarmente, perché questo venga fatto nel rispetto dell’ideologia rivoluzionaria. Viene quindi inviato un ex prete (si dimentica spesso che molti dei leader rivoluzionari più radicali erano proprio ex preti), Cimourdain; il comandante militare è invece un suo ex allievo (Cimourdain gli ha fatto da precettore), il visconte di Gauvain, uno di quei nobili che sono passati con la Rivoluzione, che tra l’altro è anche il nipote del suo nemico, il marchese di Lantenac. C’è quindi un gioco a tre (di parentela ma soprattutto psicologico) tra questi personaggi, ognuno dei quali rappresenta un punto di visa sulla Rivoluzione, ma è soprattutto il rapporto tra Gauvain e Cimourdain (che militano dalla stessa parte) a essere rivelatore della dialettica che Hugo riversa nel ragionamento sulla Rivoluzione: Gauvain (che non a caso si chiama come Galvano, il cavaliere più puro e coraggioso della Tavola Rotonda) ha una visione idealistica che viola la crudele legge di guerra in nome dell’umanità convinto che le rivoluzioni abbiano bisogno di concordia e non di terrore, e questa sua posizione cozza con la ragione più pratica dell’ex prete , il rivoluzionario fanatico disposto a sacrificare il presente e gli uomini oltre che se stesso. Un conflitto che deflagra in occasione dell’inaspettato dono di sé che il monarchico Lantenac fa per salvare tre bambini (e l’innocenza da loro rappresentata) da un incendio condannando se stesso: può la Rivoluzione, si chiede Gauvain, dimostrarsi più cattiva dei cattivi che pretende di giudicare? Questa dialettica si materializza proprio nell’assedio finale alla torre che diviene l’epicentro della narrazione come luogo simbolico (perché rappresenta il Medioevo, l’aristocrazia, il privilegio, l’Ancien Régime), tanto che davanti a quel torrione viene issata la ghigliottina, dogma contro idea, padre contro figlia, fino al drammatico finale con l’inflessibile Cimourdain che, sordo a ogni supplica, fa ghigliottinare l’amato Gauvain e poi si spara al cuore. Hugo ha una forte comprensione per le ragioni dei vandeani e li difende come guerrieri e come uomini, e con il suo consueto stile si dilunga nella spiegazione della guerriglia e dei motivi per i quali la Rivoluzione trovò problemi in Vandea, ma anche del perché sul lungo periodo la Vandea fu sconfitta (perché cercò di rispondere al nemico sul suo stesso terreno, quello del campo aperto e dell’esercito regolare, pur non avendone i mezzi); il suo vero furore civile esplode però nella descrizione della Convenzione («Siamo alla vetta eccelsa. La Convenzione. Lo sguardo è abbagliato. Nulla di più elevato è mai apparso sull’orizzonte umano. Esiste l’Himalaja e vi è la Convenzione, che è forse il punto culminante di tutta la storia»), presentata con una descrizione iperbolica e retorica per suggerirne la titanica grandezza («Tale era la Convenzione, creatura immensa; campo trincerato del genere umano assalito da ogni parte, da tutte le tenebre; fuochi notturni di un esercito di idee assediate; sconfinato bivacco degli spiriti sulla parete d un abisso. Nulla, nel processo della storia, può essere paragonato a questo insieme, senato e volgo, conclave e marciapiede, areopago e piazza, tribunale e reo»), per non parlare del fluviale elenco dei suoi membri (ognuno dei quali è presentato in breve) che ben esprime lo stile dell’accumulo, di nomi e di luoghi, che prosegue ininterrotto dalla prima all’ultima pagina del romanzo e che investe il lettore stordendolo. Non mancano però particolari di colore come le descrizioni delle votazioni sulla condanna del re e delle donne nella tribuna che contano i voti segnandoli su una tabella, o del delegato che, incespicato sugli alti e rozzi gradini della tribuna, esclama: «Ma questa è la scala del patibolo!», e si sente rispondere da un altro: «Devi pur allenarti!». Le pagine più belle però Hugo le dedica alla descrizione di Parigi di quell’anno, in un generale sovvertimento di ruoli, con il procuratore che, «denunciato, attendeva in vestaglia suonando il flauto, alla finestra», il parrucchiere che espone l’insegna “Rado gli ecclesiastici, pettino la nobiltà e acconcio il terzo stato”, e il poeta Pitou, poeta realista, il quale, «ventidue volte imprigionato e tradotto infine davanti al tribunale della rivoluzione imputato di essersi toccata una certa parte del corpo mentre pronunciava la parola cinismo, vedendosi perduto e sul punto di essere decapitato, aveva esclamato: “Ma è un’altra parte del mio corpo, e non la testa, che è colpevole!”, provocando le risa dei giudici e assicurandosi in tal modo la propria salvezza».

domenica 6 aprile 2014

Frank Miller, Lynn Varley - 300

Potrò risultare estremamente impopolare, ma a me il film 300 di Zack Snyder non è mai piaciuto, né a livello stilistico né a livello contenutistico (sorvoliamo su particolari kitsch come gli addominali rifilati al computer), e trovo abbastanza avvilente che abbia segnato l’immaginario cinematografico e collettivo. Sono sempre stato attirato però dall'acclamata e pluripremiata graphic novel di Frank Miller (testi e disegni) e Lynn Varley (colori), da cui il film in questione è stato tratto con la volontà di dare vita alle sue pagine con impressionante esattezza. Dopo averla letta, le mie sensazioni sono contrastanti. Se, da un lato, riconosco che si tratta di un capolavoro visivo dal grande dinamismo e dall’incredibile forza evocativa, che riprende l’antinaturalismo di Sin City (sempre di Miller) e lo porta ad ancor più estreme conseguenze (con sangue e violenza a farla da protagonisti, grazie alle tonalità di colore nero, ocra, seppia e rosso, come i mantelli degli spartani), dall’altro devo comunque ammettere che, dal punto di vista storico-culturale, è un’opera ampiamente discutibile. Certo, è un fumetto, e si tratta di fiction, per carità, ma non per questo bisogna far passare aprioristicamente tutto per buono, soprattutto perché, in fin dei conti, stiamo parlando di un’opera che si piccherebbe pure di passare per storica o che, per meglio dire, interpreta la storia con gli occhi di oggi. Anzi, con gli occhi del repubblicano nazionalista e guerrafondaio americano del 2000. La trama è arcinota: nel 480 a.C., per bloccare l’avanzata dell’esercito persiano capitanato da Serse, il re spartano Leonida e 300 valorosi soldati votati al sacrificio difendono il passo montuoso delle Termopili: opporranno strenua resistenza a un nemico numericamente superiore (e non di poco) e consentiranno all’esercito greco di riorganizzarsi. Il tutto è raccontato da Delio, l’unico sopravvissuto al massacro, personaggio immaginario spedito da Leonida a Sparta per raccontare quello che è successo (non c’è invece traccia di Aristodemo, l’unico superstite vero che, tornato a Sparta, venne considerato un vigliacco), al presente e in presa diretta (espediente narrativo d’indubbio effetto), attraverso una narrazione molto breve e veloce (non si arriva alle 100 pagine) e con pochi dialoghi, in cui la potenza delle immagini e le secche frasi a effetto sono preponderanti. Trovandomi perfettamente d'accordo con la disamina dell’opera fatta da Wu Ming 1, 300 è lo splendido esempio di come gli americani utilizzino la storia per rappresentare se stessi (gli spartani), la democrazia (quella difesa da loro), la pace (quella portata da loro con le armi) e i nemici nel mondo di oggi (i persiani, quindi gli islamici, ma più in generale tutti gli asiatici, come provano gli Immortali che vengono rappresentati come dei ninja), ma basterebbe la sola esaltazione della guerra per rendere l’opera ambigua (esattamente l’opposto di un fumetto antibellico e sovversivo come Watchmen di Alan Moore). Già a cominciare dalla rievocazione dell’iniziazione guerresca del futuro re Leonida, nudo, in mezzo alla neve, armato solo di un bastone affilato, aggredito da un lupo tra le rocce in un’anticipazione delle Termopili, si capisce come le inesattezze (ma sarebbe meglio definirle falsità) storiche siano innumerevoli: in realtà, il rito dell’iniziazione guerriera spartana consisteva nell’uccidere a sangue freddo un ilota disarmato, cioè un membro della casta inferiore, ma sarebbe stato troppo pretendere di proporre questo particolare a un pubblico come quello americano chiamato a identificarsi negli eroici spartani che da soli affrontano il mondo a suon di mazzate per esportare la democrazia («Oggi salviamo il mondo dai vecchi, tristi e stupidi metodi e apriamo le porte a un futuro più luminoso di quanto possiamo sperare» dice Delio alla fine, in pieno stile unilaterale). Per Miller la storia greca è il pretesto per mettere in scena lo scontro di civiltà in cui i buoni sono tratteggiati con psicologie ringhianti e fanatiche e sono tenuti insieme dall’epica virile e dalla fratellanza d’armi, e i cattivi sono ritratti come barbari mostruosi, sanguinari e spietati (e vigliacchi, dal momento che combattono da lontano con le frecce). Il nemico, nella poetica violenta dell’autore, è un mostro disumano da ridicolizzare e da eliminare con qualsiasi mezzo, come si può vedere nella scena dell’eliminazione dell’ambasciatore persiano gettato nel pozzo, che in Erodoto non è affatto compiuta da Leonida. La logica del mostro assume poi caratteri fisici evidenti nel caso degli efori, ritratti come dei vecchiacci deformi che si oppongono all’eroismo del valoroso Leonida, e di Efialte, un gobbo mostruoso rancoroso e traditore che vende gli spartani ai persiani per non essere stato accettato nella sua deformità: il fatto che non ci siano prove storiche che Efialte fosse realmente così (in altre parole, se l’è inventato Miller) e che venga presentato come uno scampato alla Rupe Tarpea introduce un’esplicita (e agghiacciante) apologia dell’eugenetica (se Efialte fosse stato ucciso da piccolo, Leonida non sarebbe stato ucciso alle Termopili). Per non parlare del personaggio di Serse, totalmente monodimensionale e del tutto estraneo a quello umano, sfaccettato e pieno di dubbi di Erodoto, Plutarco ed Eschilo, al contrario qui reso come un semidemone sadomaso coperto di piercing paurosamente simile a una drag queen, una figura totalmente omofobica e caricaturale. Certo, il film di Snyder ha fatto anche di peggio...