martedì 11 febbraio 2014

Alessandro Scalzo - Marstenheim

Per me che faccio il redattore di casa editrice, il self publishing dovrebbe essere sinonimo di scarsa qualità e rappresentare la quintessenza del male, il ferale strumento offerto ad autori vanagloriosi e convinti di essere i nuovi Tolstoj di pubblicarsi i propri romanzi incuranti di consigli esterni. E ammettiamolo: è quasi sempre così. Sono ancora convinto dell’efficacia di un buon editing, a patto che si stabilisca una buona intesa tra autore ed editor. Talvolta però ci si imbatte in un lavoro come questo Marstenheim, autopubblicato e disponibile liberamente per il download in parecchi formati (cliccare QUI per scaricare), e ci si deve ricredere. A dire il vero, questa mia convinzione dell’efficacia di un buon editing è ribadita, in quanto Marstenheim ha avuto l’editing e la consulenza di Gamberetta del blog Gamberi Fantasy e del Duca del blog Baionette Librarie, due persone che seguo e stimo moltissimo per la loro conoscenza, competenza e autorevolezza in campo letterario. Insomma, si andava sul sicuro. Inoltre l’autore, Alessandro Scalzo in arte Angra, è stato bravissimo nel seguire le indicazioni che gli sono state date, e il risultato è quanto di più sorprendente ci si potesse aspettare da un esordiente, sebbene non abbia incontrato l’attenzione del malato mondo editoriale italiano e, anzi, abbia raccolto esiti addirittura grotteschi  (dopo aver  cambiato nomi e luoghi del romanzo, l’ha spedito a uno dei più importanti agenti letterari italiani, spacciandosi per una tenera fanciulla non vedente e ottenendo per questo immediata attenzione, per poi essere liquidato una volta svelato l’inganno). In realtà, Marstenheim è un bellissimo e freschissimo romanzo di fantascienza ambientato in un indefinito futuro su una colonia terrestre abbandonata da secoli, la città di Marstenheim appunto, marcia e ormai sull’orlo del collasso, tra vestigia di un florido passato e un presente fatto di quartieri abbandonati, gente che si chiude in casa, non-morti che scorrazzano in superficie diffondendo una misteriosa pestilenza verminosa, uomini-ratto che sottoterra affollano le gallerie preparandosi a tornare in superficie, soldati della Repubblica che pattugliano le porta della città e pellegrini e crociati fanatici che si accalcano attorno alla Torre di Ferro, enorme cattedrale sormontata da un’antica torre e traliccio nell’attesa del ritorno di Grigor, messia dalle connotazioni cristologiche. In questo scenario apocalittico si muove un gruppo di guerrieri saxxon, guidati dal vecchio sciamano Ygghi Kan dai modi ambigui e dalle intenzioni poco chiare, la stregona Morgause con la passione per il sadomaso, il vampiro aristocratici André e sua sorella Carmille, la prostituta devota Alpine, il burattinaio pazzo Porfirj che crea burattini dalle persone vere (come il demone protagonista del film Jeepers Creepers), tutti alla ricerca di strano oggetto rubato dal ladro Losado, perseguitato dalla malasorte. Non ci sono buoni e cattivi in senso tradizionale: forse André è il più facile da riconoscere come cattivo, ma per i buoni è molto più difficile. Qui ognuno segue in base ai propri desideri e propositi, senza una morale imposta o un riflesso di qualche questione sociopolitica del nostro mondo attuale (inoltre attenzione: c’è sesso, e in modo esplicito). Ogni personaggio diventa protagonista e punto di vista di una sezione della storia, un po’ come nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin, ma qui i cambi sono molto più repentini e cinematografici, di paragrafo in paragrafo. Fortunatamente, non si passano intere pagine a ricevere informazioni di background da dialoghi e situazioni inutili come troppo spesso succede in ambito fantastico, quando l’autore (alle prime armi) è costretto a spiegare il come e il perché del mondo da lui creato, ma le informazioni ci vengono date un po’ per volta, con l’evolversi della vicenda e attraverso questa narrazione corale, anche quando si tratta della complessa religione di Marstenheim. Per questo, nella prima parte, il tutto è forse più farraginoso e difficile da seguire, ma nella seconda parte, quando ci si è ormai immersi negli ingranaggi della narrazione e il personaggio principale diventa il saxxon Aix (e grazie al fascino di Alpine), il racconto procede speditamente e avvince. La cosa anomala, ma che in realtà è un punto di forza, è che in un contesto fantascientifico ci sono magie e combattimenti tipicamente fantasy e si muovono creature tradizionalmente fantastiche come i vampiri, gli zombie o gli uomini-ratto, che trovano però tutti una spiegazione scientifica (gli stessi saxxon sono una variante degli elfi, anche se sono considerati dei barbari di frontiera). Alcune trovate sono veramente riuscite (le gemelle speculari Gya e Madkeen, l’incontro tra Aix e Anghelo e Daria nella taverna del porto) e ci si affeziona ai personaggi, soprattutto agli uomini-ratto: la loro gerarchia che rispecchia la burocrazia umana e li rende personaggi della commedia all’italiana ne fa i personaggi più divertenti in assoluto, e la loro lingua (normale quando parlano tra di loro, sgrammaticata e comica quando si rivolgono a un essere umano) è geniale, ma l’apice viene raggiunto nel discorso da leader politico fondamentalista stile Mussolini di Skiapp. L’unico appunto che posso muovere è il finale un po’ affrettato (anche se non per questo poco convincente), ma nel complesso questo Marstenheim si è rivelato una graditissima sorpresa: peccato che nessun editore abbia rischiato la pubblicazione di un bel libro.

mercoledì 5 febbraio 2014

Alex Ferguson - La mia vita

Stagione 1991-92: la scoperta del campionato inglese su Tele+2 (all’epoca in chiaro, ma durerà poco) irrompe nella mia vita di studente di prima media come un fulmine a ciel sereno. Non esco più di casa per seguire le partite, la lettura degli articoli del mitico Roberto Gotta sul “Guerin Sportivo” fa il resto. Divento un fanatico. Il Manchester United (squadra che ha vinto la Coppa delle Coppe la stagione precedente sconfiggendo inaspettatamente l’odioso Barcellona) domina a lungo il campionato ma perde il campionato con una sconfitta a Liverpool per 2-0 lasciando via libera al Leeds United: una squadra folle, con tutte le carte in regole per piacermi. Da allora, ho sempre tifato per il Manchester United, assistendo a una lunga serie di trionfi, tutti legati a un’unica, insostituibile e leggendaria figura: lo scozzese Sir Alex Ferguson. In 27 anni alla guida dei Red Devils (vero e proprio fenomeno di longevità) è stato capace di vincere 13 Premier League, 5 FA Cup, 4 League Cup, 10 Charity/Community Shield, 2 Champions League, una Coppa delle Coppe, 2 Supercoppe Europee, una Coppa Intercontinentale e un Mondiale per Club. Antipatico, scorbutico, incazzoso e spocchioso (celebre il suo chewing-gum perennemente masticato a bordocampo), dotato di un’incrollabile volontà di vittoria e di un inesauribile sentimento di rivincita (aveva già deciso di ritirarsi al termine della stagione 2001-02 ma l'essere rimasto a secco di titoli quell’anno lo fece desistere dal proposito), capace di prendere una nobile decaduta di mezza classifica e di portarla ai vertici del calcio mondiale rimanendoci per oltre vent'anni e cambiando quattro generazioni di giocatori. Da quando ha annunciato il suo ritiro definitivo, al termine della stagione 2012-13, il mondo non è più stato lo stesso. Il suo sostituto alla guida del club, il povero David Moyes, ha sinora raccolto solo delusioni e incontrato incredibili difficoltà, e non poteva essere altrimenti: sostituire il carisma di Sir Alex sarebbe stato impossibile per chiunque. Intendiamoci: anche Ferguson si è dimostrato umano. Ha commesso molti errori, ha vinto ma anche perso molto (tre finali di FA Cup, tre di League Cup, ma soprattutto due di Champions League contro il Barcellona), ha litigato con molti dei suoi giocatori (David Beckham, Roy Keane e Ruud Van Nistelrooy), ne a lasciati andare altri per poi pentirsi amaramente (Jaap Stam), ha sbagliato qualche acquisto (Kleberson e Djemba-Djemba). Sir Alex è però stato un professionista vero, assorbito totalmente dal lavoro, ha preso gente come Wayne Rooney e Cristiano Ronaldo, ha lanciato Paul Scholes, David Beckham e Ryan Giggs (l’incredibile generazione del ’92), è stato un padre per i suoi giocatori e un instancabile programmatore del futuro, capace di rifondare ciclicamente la squadra mantenendo la stima di dirigenti e tifosi e accettando che qualche stagione andasse storta (una cosa che sarebbe impossibile in Italia, dove c'è troppa fretta di vincere qualcosa e quindi di cambiare per poi non vincere niente). Tutte caratteristiche che emergono anche dalla lettura di questa autobiografia, scritta insieme a Paul Hayward del “Daily Telegraph” e indicativa per capire la totale identificazione tra Ferguson e Manchester United: dell’Aberdeen (altra squadra di cui è stato allenatore e con cui ha vinto addirittura una Coppa delle Coppe contro il Real Madrid) viene infatti detto pochissimo, e tutto è incentrato sul suo periodo allo United, soprattutto dal Nuovo Millennio in poi, per intenderci quello successivo al mitico Treble del 1998-99 (quando i Red Devils vinsero in un colpo solo campionato, FA Cup e Champions League). Organizzata per aree tematiche e non in ordine cronologico (e per questo più interessante), con alcune ripetizioni ma piena zeppa di aneddoti (molti dei quali spassosi e raccontati con un tono bonario e indulgente), racconta una vita fatta di panchine, spogliatoi, allenamenti infrasettimanali, sedute con la squadra per studiare gli avversari, riunioni con gli osservatori per decidere le prossime mosse di mercato, conferenze stampa prima e dopo le partite, strette di mano a bordo campo. Ma c’è anche tantissimo della vita privata del leggendario allenatore: gli amici (Bobby Robson, Carlos Queiroz, Harry Redknapp), i rivali (Arsène Wenger), i nemici (Rafa Benitez, reo di aver trasferito la loro rivalità su un piano personale), gli hobby (vini, cavalli e le biografie, soprattutto di John Fitzgerald Kennedy), le simpatie politiche (il partito laburista e i premier Tony Blair e Gordon Brown), i rapporti con i media (spesso difficili) e i trucchi per destabilizzare gli avversari (le conferenze stampa e il famoso gesto di guardare l’orologio a un quarto d’ora dalla fine delle partite). Sir Alex racconta anche la sua ammirazione per Gianfranco Zola, ha parole di stima per José Mourinho, ricorda gli errori arbitrali che gli sono costati delle sconfitte e i litigi a bordocampo con gli altri allenatori, polemizza ancora ad anni di distanza con la Federazione inglese per le squalifiche comminate a Eric Cantona (che ha preso a calci un tifoso del Crystal Palace) e Rio Ferdinand (che ha saltato l’antidoping a sorpresa), e svela di aver smesso di allenare perché non avrebbe più potuto sopportare di perdere un campionato all’ultimo minuto come nel 2011-12 (a vantaggio del Manchester City) e in seguito alla morte della cognata Bridget. La sua personalità è perfettamente espressa dalla sua spiegazione del perché il Manchester City non è riuscito a vincere di nuovo il titolo dopo averlo sottratto allo United nel 2011-12 (il momento peggiore in assoluto), vero concentrato di spocchia e fiero attaccamento alle tradizioni: “Non avevano potuto contare su giocatori che capivano il significato di vincere un campionato per la prima volta dopo quarantaquattro anni. Evidentemente per alcuni di loro era stato sufficiente battere lo United in una corsa al titolo e si erano rilassati, si erano lasciati andare”. Logico che chi non ha dimestichezza con l’argomento leggendolo possa un po’ perdersi, soprattutto alla luce del provincialismo che caratterizza il calcio italiano, ma io che giocavo in casa (tutti gli episodi da lui raccontati li ho vissuti in prima persona, settimana dopo settimana, per vent’anni) ho ricavato la stessa magica sensazione di un nipotino seduto sulle ginocchia di un nonno che gli raccontava la Storia. Unico appunto, la quantità di errori: sono tonnellate, soprattutto a livello di date sbagliate (debutti, addii, vittorie), anche nelle didascalie delle foto. Pare sia un problema dell’edizione originale inglese, ne sono stati contati 45: un’attenzione maggiore non avrebbe guastato.