sabato 2 agosto 2014

Nick Hornby - Una vita da lettore

Trovare uno dei propri scrittori preferiti che parlano di letteratura fa sempre piacere, figuriamoci se lo scrittore in questione è Nick Hornby. Autore di libri bellissimi che non mi hanno mai deluso, ma soprattutto di Alta fedeltà e Febbre a 90°, cioè due dei più grandi libri della mia vita, capaci di raccontare come nessun altro ossessioni come la musica e il calcio (ma soprattutto l’amore), lo scrittore inglese diventa critico letterario con questo Una vita da lettore che è la raccolta degli articoli tratti dalla rivista americana Believer tra il settembre 2003 e il giugno 2006 in una rubrica mensile che dovrebbe raccontare la sua personale vita di lettore: per ogni mese troviamo una doppia colonna, quella dei libri comprati e quella dei libri letti, a cui segue la spiegazione del perché di simile selezione e le motivazioni che legano un testo all’altro (e agli avvenimenti della sua vita), oltre che le impressioni di Hornby sui libri letti. Con una doverosa accortezza: la politica del Believer, come dice Hornby in apertura, è quella di non stroncare mai nessuno, quindi laddove lo scrittore parla male di un testo non può citarne né titolo né autore. Così, come riporta la quarta di copertina, ci troviamo davanti «a un diario di letture alquanto informale, che nulla a che vedere con i giudizi del critico, ma somiglia piuttosto a un’appassionante avventura dentro i libri». E poco importa se la maggior parte dei titoli non ci dicono niente: la sua bravura è tale che vorremmo aver letto anche i libri più sconosciuti e repellenti di cui parla (tipo Train di Peter Dexter, in cui la protagonista femminile viene stuprata e nel mentre subisce l’amputazione di un capezzolo). Hornby gioca moltissimo sull’ironia, sull’arguzia e sul sarcasmo («Noi in Inghilterra per fortuna non abbiamo la miseria, grazie a Tony Blair che l’ha debellata appena dopo essere andato al potere, nel 1997 [nota per il recensore del Guardian: è una battuta»]), con uno stile estremamente leggero e confidenziale, senza prendersi mai sul serio ma con una leggera punta di snobismo (soprattutto nei confronti dei recensori su Amazon: «Accidenti, li odio i recensori di Amazon. Anche quelli gentili, quelli che scrivono cose gentili. Son bastardi anche loro»): per esempio, un mese è quasi spinto ad abbracciare la vita religiosa sulla scia dell’entusiasmo derivato dalla lettura di Gilead di Marilynne Robinson («Mi ha trasformato in un uomo più saggio e più buono. A onor del vero, sto scrivendo queste righe da un collegio teologico in un contea dell’Inghilterra dove intendo trascorrere i prossimi anni. Mi mancheranno i miei figli, la mia compagna e la mia squadra di calcio, ma quando Dio viene a bussare alla tua porta, mica puoi chiudergliela in faccia, giusto?»), ma il mese dopo cambia repentinamente idea leggendo che la comunità mennonita è contraria a tutte le cose che rendono la vita tollerabile («sesso, droga, rock’n’roll, truccarsi, guardare la tele, fumare e così via»). Fa spessissimo riferimento ai Polysyllabic Spree (che è anche il titolo originale dell’opera), un gruppo di entità quasi soprannaturale costituito da un numero imprecisato e variabile (a seconda del mese) di uomini e donne biancovestiti che costituirebbe la redazione del Believer e avrebbe il compito di sancire quando la rubrica può essere pubblicata e quando no, tanto che a loro si rifà spessissimo nell’autocensurarsi. Nella prefazione indaga le motivazioni che portano il lettore alla lettura, riassumibili essenzialmente in una cosa sola: il divertimento che se ne trae («Da quando ho iniziato questa rubrica credo di aver letto una dozzina di libri splendidi. […] Che cosa avete fatto per dodici volte l’anno scorso di altrettanto stupendo, oltre a leggere? Bugiardi»). Per leggere occorre tenere conto di ciò che ci piace e non di ciò che ci viene detto: non ci sono leggi precise, ognuno legge quello che più gli aggrada, dai classici alle biografie degli sportivi, a volte in modo anche non del tutto razionale. Soprattutto, non bisogna leggere per obbligo: se un libro non ci piace, faremmo bene ad abbandonarlo, infischiandocene di quello che dice la gente (e soprattutto i critici). In questo modo, la biblioteca di ognuno diventa un’espressione della personalità di ciascuno. Inoltre, Hornby cerca di spiegare come è impossibile parlare dei libri come se fossero opere immortali fuori dal tempo e dallo spazio, senza alcun legame concreto con la propria vita: nel suo caso, sarebbe stato impossibile affrontare libri sull’autismo (Hornby ha un figlio autistico), sullo smettere di fumare o sulla sua ossessione calcistica (è un tifoso sfegatato dell’Arsenal), o riconoscere nel libro di sua sorella Gill (una biografia su Jane Austen) un sottinteso sul rapporto tra fratelli nelle dinamiche familiari. Ma basterebbe anche solo lo straordinario esempio di recensione su Amazon a proposito di Diario di un curato di campagna da parte di un lettore che dice di averlo odiato per il tormento e la frustrazione di averlo dovuto leggere in lingua originale per l’esame di francese e per l’essere stato causa del basso voto che gli ha pregiudicato l’accesso all’università da lui scelta e l’ha costretto a passare a Economia, cambiando il corso della sua vita: segno di quanto i libri possano rivestire un ruolo decisivo e fondamentale, tanto che Hornby ammette di aver sempre voluto scrivere anche lui qualcosa in grado di suscitare un’animosità altrettanto feroce.

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