martedì 8 aprile 2014

Victor Hugo - Il Novantatré

Parlare di Rivoluzione francese è difficile dal punto di vista storico, figuriamoci scriverci sopra della fiction. È quindi raro trovare delle opere letterarie ambientate in questo periodo capaci di mettere la Rivoluzione al centro e non solo come sfondo, e ancora più difficile è trovare opere colossali e problematiche come Il Novantatré, ultimo romanzo di Victor Hugo dedicato all’anno simbolo 1783, quello del Terrore e della guerra in Vandea, rivoluzione e controrivoluzione. Ancora più interessante perché scritto da un autore come Hugo che è partito monarchico e legittimista ed è stato allevato nel mito della Vandea (sua madre era di origine vandeana) per poi spostarsi sempre più a sinistra e rivendicare totalmente l’esperienza della Rivoluzione: Hugo ci catapulta lì, nel fitto delle foreste vandeane, nella guerriglia contadina, dove le armate controrivoluzionarie dormono in piedi nei cavi, costruiscono delle vere e proprie cittadelle sotterranee che sorprendono l’esercito regolare mandato da Parigi per combattere per la Rivoluzione. Poi siamo portati in mezzo al mare, di notte, su una nave che sta portando in Vandea un aristocratico esiliato, il marchese di Lantenac ma al momento ancora senza nome (lo scopriremo solo quando lui sesso lo leggerà in un editto che annuncia la sua condanna a morte), che è stato designato dagli aristocratici scappati in Inghilterra come capo della rivolta vandeana. A bordo della nave si registra una scena memorabile: uno dei cannoni della stiva è agganciato male e si libera durante una tempesta, comincia a rotolare e demolisce tutto cominciando ad aprire falle nello scafo, e si scatena come «un carro vivente dell’Apocalisse» e finisce per sembrare quasi la materializzazione della furia di Dio, tipico esempio della poetica di Hugo che vede l’uomo in balia di forze più grandi (la natura, la storia, la stessa Rivoluzione: «La rivoluzione è un fatto immanente, un fenomeno che urge da ogni lato, e che noi chiamiamo necessità»). Dopo una grade lotta per fermarlo, un cannoniere riesce a prenderlo e rilegarlo: Lantenac lo fa decorare e subito dopo fucilare per negligenza, e si dimostra una persona tutta d’un pezzo perché poi difende la sua scelta (perché la responsabilità era davvero del cannoniere) con il fratello della vittima che vuole ucciderlo per vendetta. Sbarcato in Vandea, organizza la resistenza cui mostra il lato peggiore, quello fatto di fucilazioni di prigionieri e donne. A Parigi la preoccupazione è tanta, e Hugo descrive l’incontro in un’osteria, di sera, tra Marat, Danton e Robespierre (ritratti nelle loro peculiarità: Marat nervoso e invasato, Robespierre tutto azzimato e Danton sbracato e volgare), i quali identificano ognuno il pericolo in un fenomeno diverso: secondo Marat sono le cospirazioni interne a Parigi, per Danton il fronte esterno delle potenze straniere che gravano sulla Francia, mentre Robespierre identifica il problema proprio nella Vandea e decide di inviare lì un delegato del comitato di salute pubblica perché faccia da commissario politico che si affianchi al comandante rivoluzionario che deve reprimere la ribellione militarmente, perché questo venga fatto nel rispetto dell’ideologia rivoluzionaria. Viene quindi inviato un ex prete (si dimentica spesso che molti dei leader rivoluzionari più radicali erano proprio ex preti), Cimourdain; il comandante militare è invece un suo ex allievo (Cimourdain gli ha fatto da precettore), il visconte di Gauvain, uno di quei nobili che sono passati con la Rivoluzione, che tra l’altro è anche il nipote del suo nemico, il marchese di Lantenac. C’è quindi un gioco a tre (di parentela ma soprattutto psicologico) tra questi personaggi, ognuno dei quali rappresenta un punto di visa sulla Rivoluzione, ma è soprattutto il rapporto tra Gauvain e Cimourdain (che militano dalla stessa parte) a essere rivelatore della dialettica che Hugo riversa nel ragionamento sulla Rivoluzione: Gauvain (che non a caso si chiama come Galvano, il cavaliere più puro e coraggioso della Tavola Rotonda) ha una visione idealistica che viola la crudele legge di guerra in nome dell’umanità convinto che le rivoluzioni abbiano bisogno di concordia e non di terrore, e questa sua posizione cozza con la ragione più pratica dell’ex prete , il rivoluzionario fanatico disposto a sacrificare il presente e gli uomini oltre che se stesso. Un conflitto che deflagra in occasione dell’inaspettato dono di sé che il monarchico Lantenac fa per salvare tre bambini (e l’innocenza da loro rappresentata) da un incendio condannando se stesso: può la Rivoluzione, si chiede Gauvain, dimostrarsi più cattiva dei cattivi che pretende di giudicare? Questa dialettica si materializza proprio nell’assedio finale alla torre che diviene l’epicentro della narrazione come luogo simbolico (perché rappresenta il Medioevo, l’aristocrazia, il privilegio, l’Ancien Régime), tanto che davanti a quel torrione viene issata la ghigliottina, dogma contro idea, padre contro figlia, fino al drammatico finale con l’inflessibile Cimourdain che, sordo a ogni supplica, fa ghigliottinare l’amato Gauvain e poi si spara al cuore. Hugo ha una forte comprensione per le ragioni dei vandeani e li difende come guerrieri e come uomini, e con il suo consueto stile si dilunga nella spiegazione della guerriglia e dei motivi per i quali la Rivoluzione trovò problemi in Vandea, ma anche del perché sul lungo periodo la Vandea fu sconfitta (perché cercò di rispondere al nemico sul suo stesso terreno, quello del campo aperto e dell’esercito regolare, pur non avendone i mezzi); il suo vero furore civile esplode però nella descrizione della Convenzione («Siamo alla vetta eccelsa. La Convenzione. Lo sguardo è abbagliato. Nulla di più elevato è mai apparso sull’orizzonte umano. Esiste l’Himalaja e vi è la Convenzione, che è forse il punto culminante di tutta la storia»), presentata con una descrizione iperbolica e retorica per suggerirne la titanica grandezza («Tale era la Convenzione, creatura immensa; campo trincerato del genere umano assalito da ogni parte, da tutte le tenebre; fuochi notturni di un esercito di idee assediate; sconfinato bivacco degli spiriti sulla parete d un abisso. Nulla, nel processo della storia, può essere paragonato a questo insieme, senato e volgo, conclave e marciapiede, areopago e piazza, tribunale e reo»), per non parlare del fluviale elenco dei suoi membri (ognuno dei quali è presentato in breve) che ben esprime lo stile dell’accumulo, di nomi e di luoghi, che prosegue ininterrotto dalla prima all’ultima pagina del romanzo e che investe il lettore stordendolo. Non mancano però particolari di colore come le descrizioni delle votazioni sulla condanna del re e delle donne nella tribuna che contano i voti segnandoli su una tabella, o del delegato che, incespicato sugli alti e rozzi gradini della tribuna, esclama: «Ma questa è la scala del patibolo!», e si sente rispondere da un altro: «Devi pur allenarti!». Le pagine più belle però Hugo le dedica alla descrizione di Parigi di quell’anno, in un generale sovvertimento di ruoli, con il procuratore che, «denunciato, attendeva in vestaglia suonando il flauto, alla finestra», il parrucchiere che espone l’insegna “Rado gli ecclesiastici, pettino la nobiltà e acconcio il terzo stato”, e il poeta Pitou, poeta realista, il quale, «ventidue volte imprigionato e tradotto infine davanti al tribunale della rivoluzione imputato di essersi toccata una certa parte del corpo mentre pronunciava la parola cinismo, vedendosi perduto e sul punto di essere decapitato, aveva esclamato: “Ma è un’altra parte del mio corpo, e non la testa, che è colpevole!”, provocando le risa dei giudici e assicurandosi in tal modo la propria salvezza».

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