sabato 30 novembre 2013

Wu Ming 4 - Difendere la Terra di Mezzo. Scritti su J.R.R. Tolkien

Tolkien di destra o di sinistra? Una discussione sterile ma feconda in Italia, Paese estremamente provinciale dove Tolkien, totalmente ignorato dalla sinistra, ha conosciuto una connotazione decisamente politica per essere stato adottato dalla destra e dai suoi intellettuali (mentre altrove, per esempio in America, Gandalf e Frodo divennero campioni degli hippie e della controcultura; “Gandalf for President” e “Frodo lives”, dicevano gli slogan), e le sue sorti sono state condizionate da mistificazione, snobismo e confessionalismo. Finalmente le cose hanno incominciato a cambiare e ci sono degli autori come Wu Ming 4 che, nonostante la militanza a sinistra, è un tolkieniano di ferro che sa il fatto suo e si è già occupato del professore di Oxford nel suo saggio L’eroe imperfetto, nel romanzo Stella del mattino (dove Tolkien è uno dei personaggi) e nell’edizione critica de Il ritorno di Berhtnoth figlio di Beorhthelm. Ora ha fatto uscire questo nuovo saggio (illustrato) che è una rielaborazione di scritti già apparsi sul blog “Giap” dei Wu Ming e seminari e conferenze da me già conosciute attraverso l’ascolto dei podcast del collettivo come Il Tolkien immaginario dei fascisti italiani e Messer Holbytla. L’eroe, il giardiniere e il perfetto gentilhobbit. L’ho aspettato con impazienza, l’ho comprato il giorno stesso in cui è uscito e l’ho divorato in due giorni. Credo sia uno dei più bei libri su Tolkien che abbia mai letto: profondo, adulto, completo, serio, competente e documentato (l’apparato di note costituiscono già di per se stesse un libro), un atto di amore incondizionato nei confronti dello scrittore inglese. Il titolo, Difendere la Terra di Mezzo, pone subito la questione: difenderla da cosa? Innanzitutto da chi continua a reputare la creazione letteraria di Tolkien un qualcosa privo di valore e la svilisce a puro espediente commerciale, come accaduto all’indomani della pubblicazione del Signore degli Anelli che, agli occhi della paludata critica contemporanea, apparve del tutto avulsa dal contesto contemporaneo perché contraddiceva le linee guida della narrativa tracciate fin dagli Venti e anzi pretendeva di restituire un senso all’esistenza attraverso l’epica e il mito, creando un universo fantastico antico e fantastico (attraverso un immane lavoro di cesello, vito che Tolkien lavorò al suo mondo dal 1916 al 1973, anno della sua morte). Ecco quindi che questo professore filologo, innamorato delle parole al punto da inventarsi le lingue prima delle sue storie (perché era convinto che le parole non fossero meri strumenti del racconto, ma in qualche modo lo contenessero), fu negletto e ridotto al ruolo di infantile escapista, abbarbicato a una visione fideistica, antimoderna e moralistica che si opponeva a quella di chi aveva decretato la dissoluzione del romanzo e stabilito che l’uomo contemporaneo (citando Musil) era senza qualità perché i suoi valori erano incerti e infondati tanto quanto la conoscenza della verità. Nessuno considerò mai l’ipotesi che gli hobbit fossero l’innovativa risposta alle grandi questioni etiche ed estetiche del XX secolo poste dalla rivoluzione modernista: l’opera di Tolkien parla infatti del mondo reale e i suoi personaggi sono estremamente contemporanei e vicini a noi, «in grado di parlare a una civiltà post-cristiana come quella attuale». Se quest’opera di costruzione di mondi fantastici non avesse a un certo punto visto comparire gli hobbit, eroi molto moderni, non avrebbe avuto lo tesso tipo di successo: gli hobbit infatti sono solo una parte di questo mondo, ma rappresentano la parte che presta lo sguardo al lettore contemporaneo e gli permette un’identificazione. Inoltre, la concezione della letteratura in Tolkien (comunità, gioco, incantesimo, possibilità partecipativa e co-narrazione) va nella direzione opposta rispetto all’idea contemporanea della netta separazione tra l’autore che produce ed esprime il genio individuale e il lettore che giudica l’opera, ed è uno dei motivi di successi del fandom tolkieniano: i lettori si sentono incoraggiati a partecipare alla sub-creazione, tanto è vero che, nella maggior parte dei casi, i prodotti di fan fiction, di videogiochi al cosplay, sviluppano direttamente il materiale e gli spunti messi a disposizione da Tolkien stesso. Wu Ming 4 prova quindi a mappare (a grandi linee) le influenze di Tolkien nella cultura pop del Novecento, in saghe cinematografiche come Star Wars e nella letteratura: Tolkien ha alcuni grandi “discepoli” (Stephen King, Neil Gaiman, Ursula K. Le Guin, George R.R. Martin) che lavorano sul fantastico e che dichiaratamente lo riconoscono tra i loro padri letterari anche se hanno intrapreso altre strade, ed è un imprescindibile termine di paragone anche per quegli autori che lo criticano, come Michael Moorcock e Philip Pullman, ma rimangono ancorati a un fronteggiamento che sembra impedire una loro completa emancipazione (in quanto, come ha detto George R.R. Martin, «Il Signore degli Anelli è una montagna che si staglia su ogni altra opera di fantasy scritta prima e dopo»). Wu Ming dice però che bisogna difendere la Terra di Mezzo anche da un altro rischio, da chi la concepisce come utopia, luogo ideale e manifesto ideologico-culturale, perché, «laddove la ragione dorme e il simbolismo prospera, muore la letteratura»: è il caso della destra italiana e delle sue letture “simbolistiche” di Tolkien sul modello delle interpretazioni di Julius Evola, che pongono l’accento su tratti distintivi tipici come la spiritualità iniziatica, il neopagano, il vittimismo, l’esclusivismo e la Tradizione, in maniera del tutto decontestualizzata dal contesto storico-letterario, e finiscono per ritrarre un Tolkien intento a dialogare soltanto con gli antichi attraverso rimandi e simboli eterni privati di significato. Ma è anche il caso del simbolismo di stampo confessionale e catechistico, ancorato ai testi sacri e alla teologia cattolica, che forza l’opera di Tolkien in chiave allegorico-morale e apologetica, cosa peraltro sempre rifiutata da Tolkien stesso, che più volte spiegò come la simbologia cristiano-cattolica nella sua opera può essere colta solo come un’eventuale fonte d’ispirazione ma viene poi declinata all’interno di una trama che la cambia e la sovverte (anche se Tolkien era un cattolico tradizionalista ed era effettivamente permeato di valori e principi cristiani come la pietà, la provvidenza e l’umiltà). Nell’ottica di restituire l’autore a se stesso, nella seconda parte del libro Wu Ming 4 riporta Tolkien all’interno del suo tempo e nel solco della letteratura vittoriana ed edoardiana, perché nulla si può comprendere della poetica tolkieniana se si prescinde dal contesto estetico e culturale al quale lo scrittore attinse. Tolkien riflette gli scenari romantici ottocenteschi, figli di un’ottica tanto anti-modernista quanto completamente moderna: la stessa Contea (luogo in cui abitano gli hobbit) non vagheggia chissà quale mondo perduto medievale o un’utopia sociale o ecologica, ma si inserisce nel solco dei grandi romanzieri dell’Ottocento inglese (Jane Austen, George Eliot, le sorelle Brontë, Thomas Hardy) che hanno raccontato il lato oscuro dell’Inghilterra rurale ed è diretta figlia di un immaginario ben preciso, la campagna riconoscibile nei dipinti di John Constable e di altri pittori romantici inglesi, un’elegia pastorale nella quale i poeti della generazione di Tolkien cercarono rifugio dagli orrori della Prima Guerra Mondiale (la prima guerra tecnologica della storia). La Contea non è un luogo mitico e felice, perché Tolkien ne mette in luce anche gli aspetti negativi: la stessa Terra di Mezzo è un luogo ibrido di incontro e scontro tra modernità e antichità, dove vengono collocati i grandi problemi dell’evo moderno. Anche i suoi personaggi (che non sono affatto stereotipati, perché partono da archetipi narrativi e mitici ma poi cambiano e si evolvono nel corso della trama) presentano una dialettica strana tra il seguire un’autorità positiva e il ribellarsi. Nel capitolo Hobbit ed ethos, il più bello forse di tutto il libro, Wu Ming 4 analizza le varie vie del coraggio che Tolkien sembra suggerire e si dimostra convinto che nel canone tolkieniano sia ben presente una riflessione narrativa sulla necessità di disobbedire in certi frangenti all’autorità, con una profonda e continua esaltazione del libero arbitrio: quando si cessa di farlo, sembra dire Tolkien, si inizia il cammino della corruzione. A ribadire l’attualità dello scrittore inglese e la sua lettura dialettica, in Appendice al volume è posto un saggio del grande filologo Tom Shippey, autore di alcuni dei saggi più importanti e famosi su Tolkien, che tratta della rappresentazione delle classi sociali nel Signore degli Anelli: lo fa da filologo, confrontandosi con il testo e le parole, e giunge a concludere che questa rappresentazione c’è, con un conflitto e uno scambio tra modelli sociali antichi e moderni.

Wu Ming - 54

Non si può spiegare quanto io abbia amato Q, tanto da averlo letto due volte e da accarezzare l’idea di leggerlo una terza, tali sono la sua profondità, la sua accuratezza e le sue possibilità di lettura. Lo stesso collettivo di scrittori, rinominatosi Wu Ming, ha dato alle stampe questo 54, che ne cambia l’ambientazione (in Q erano le guerre di religione del Cinquecento, in 54 è il Secondo Dopoguerra) ma riflette ancora sulla storia come specchio del presente, anzi individua proprio nel 1954 il remoto punto d’origine del presente e si presenta come un ragionamento sulla la droga, l’avvento della TV e la potenza di Hollywood, i riequilibri del potere e i loro contraccolpi sulla gente comune, ma anche come un canto in favore delle infinite possibilità della storia e delle casualità e coincidenze che possono cambiarne il corso. L’impostazione è la stessa di Q, quella di un romanzo corale che, in oltre 600 pagine, mette in scena un’infinità di luoghi (dagli Stati Uniti a Mosca, dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra alla Jugoslavia), figure, eventi e situazioni, dalla nascita del KGB allo scontro di fazioni nel partito comunista jugoslavo, dall’eliminazione dell’Italia da parte della Svizzera ai mondiali di calcio alla crisi di Fausto Coppi, dalla cacciata dei francesi dall’Indocina con la battaglia di Dien Bien Phu al caso Montesi (alla fine fa una brevissima apparizione anche Fidel Castro). Ci sono un centinaio di personaggi, 16 diversi punti di vista, tra cui quelli di un piccione viaggiatore e di un televisore, un povero McGuffin non funzionante (simbolo del progresso tecnologico e di un luminoso futuro, in grado di vedere, ascoltare e riflettere), rubato e sballottato in giro per l’Italia, rifiutato da vari acquirenti che non si accorgono che l’apparecchio non si accende perché l’interno è stato parzialmente svuotato per fare posto a una partita di eroina. Trieste è ancora una città controllata dalla polizia britannica e da quella statunitense, con Italia e Jugoslavia che non sono ancora giunte a un accordo: siccome dagli esiti di questo accordo dipenderanno i futuri rapporti tra Est e Ovest, e il comunismo jugoslavo è una cosa a sé (cioè non obbedisce a Mosca), i servizi segreti britannici e americani propongono all’attore Cary Grant (in un momento di crisi perché da due anni non gira più un film) di sostituirlo con un improbabile sosia e di andare in Jugoslavia a far visita al Maresciallo Tito, grande fan di Grant, per discutere di un possibile film riguardante appunto la vita di Tito (e i due scoprono di avere molte cose in comune). C’è poi Pierre Capponi detto Robespierre, dandy proletario, ballerino provetto di filuzzi e animatore del bar Aurora di Bologna, ritrovo per delusi che non hanno ancora digerito la rivoluzione postbellica mancata, manipolo di rivoluzionari che non esita a trasformarsi in platea dei mondiali di calcio di fronte al televisore (lo stesso bar Aurora è il centro di numerosi capitoli il cui narratore è, in un certo senso, collettivo, come testimoniato dall’uso del “noi”). Pierre, che coltiva una relazione proibita con una donna sposata, decide di andare a cercare il padre ex partigiano in Jugoslavia, dove si è trasferito e dove ha fatto perdere le proprie tracce, e per questo chiede aiuto a un contrabbandiere espulso dal PCI che gli chiede in cambio di usare la cantina del bar come magazzino di sigarette di contrabbando. Durante il suo viaggio in Jugoslavia si imbatte nel tentativo di rapimento di Cary Grant da parte di agenti del KGB. Troviamo quindi Lucky Luciano, gangster americano in esilio a Napoli che trucca le corse dei cavalli e segue il suo traffico di droga planetario, e il suo braccio destro Steve Cemento, che gli sottrae della droga con il proposito di venderla in Francia. C’è poi Salvatore Pagano detto Kociss, che accompagna la prostituta Lisetta (di cui è innamorato) dagli ufficiali americani con la bicicletta e ruba il televisore con la droga dentro e finisce in Francia dove vince un’ingente somma al casinò nel quale c’è anche il patetico e decadente imperatore da operetta indocinese Bao Dai che scialacqua una fortuna al casinò, notte dopo notte. Per quanto improbabile appaia la trama, bisogna riconoscere che tutto torna, che le storie dei personaggi in qualche modo si toccano e si compenetrano tutte. C’è un gran lavoro sulla lingua dei personaggi, per farli esprimere nei loro toni dialettali (bolognese, siciliano, sardo) e far sentire le differenze regionali, il tutto senza però mai dimenticare il piacere della narrazione e della lettura. Come ogni brava opera postmoderna, è presente un diluvio di riferimenti e di citazioni letterarie e cinematografiche: Cary Grant in missione in Jugoslavia viene chiamato George Kaplan come il suo personaggio in Intrigo internazionale e intanto legge Casino Royale di Ian Fleming (primo romanzo della saga di James Bond uscito proprio quell’anno); Steve Cemento è un personaggio del film Lucky Luciano di Francesco Rosi (ma ho letto che moltissimi sono i rimandi a Izzo, Le Breton, Malet, Gabin e Fenoglio, che non conosco e quindi non ho colto), mentre molti capitoli sono omaggi a vari generi cinematografici, dalla commedia all’italiana al poliziottesco, dalla screwball comedy a Hitchcock, che appare sulla Costa Azzurra mentre gira Caccia al ladro con Grace Kelly. C’è tutto, la comunicazione e il linguaggio, la scrittura e la lingua parlata, il cinema e la televisione. Un romanzo-mondo che contiene tutto, davvero notevole e degno di ammirazione, che ha avuto l’unico torto di avermi comunque preso meno di Q.

lunedì 25 novembre 2013

L. Frank Baum, Daniel Chauvel, Enrique Fernández - Il Mago di Oz

Lo ribadisco: non sono mai stato un fan del vecchio film di Victor Fleming (quello con Judy Garland, le canzoncine irritanti e la strega con i piedi arrotolati) né ho mai letto il libro di L. Frank Baum da cui è stato tratto. Il fascino del Mago di Oz è per me legato al bellissimo film Nel fantastico mondo di Oz (Return to Oz) degli anni Ottanta che vedevo e rivedevo da piccolo, ma che non è nemmeno basato sul primo romanzo della serie (indiscutibilmente il più famoso) ma sul secondo e sul terzo, e sulla recente e bellissima graphic novel della Marvel firmata da Eric Shanower e Skottie Young, la cui lettura mi ha spinto ad alcune considerazioni sull’argomento (QUI per chi ne fosse interessato). Le celeberrime avventure di Dorothy e dei suoi pittoreschi compagni di viaggio nel meraviglioso mondo di Oz rivivono però anche in questa diversa trasposizione a fumetti edita da Tunué e scritta da David Chauvel (testi) e Enrique Fernández (disegni), uscita originariamente in tre capitoli nella sua edizione francese: l’approccio è classico e indicato per chi si accosta anche per la prima volta all’opera, soprattutto per i bambini, le didascalie descrittive sono prevalenti rispetto al dialogo (in alcuni frangenti si potrebbe parlare di romanzo illustrato), la narrazione è agevole anche se in certi passaggi è eccessivamente rapida, il tratto grafico è abbastanza personale e autorale con paesaggi stilizzati e personaggi dai tratti geometrici e spigolosi ma fortemente espressivi e caratterizzati da alcune finezze (il leone dalla criniera lucida e la riga in mezzo). In generale, direi che siamo ben lontani dallo splendore favolistico della trasposizione della Marvel, anche a livello di confezione (la Marvel è rilegata, questa è brossurata con copertina in cartoncino rigido opaco e plastificato).

domenica 17 novembre 2013

Wu Ming 4 - L'eroe imperfetto

Davvero molto interessante e riuscito questo libretto di Wu Ming 4 che è innanzitutto un esercizio di lettura della tradizione epica occidentale e che raccoglie tra saggi accomunati dall’analisi della figura dell’eroe, o almeno di una certa figura dell’eroe, cercando di metterla in discussione, insieme a un certo tipo di eroismo. Un libro che, magari non sempre in maniera condivisibile da tutti, cerca di sottolineare l’ambiguità dell’eroe, le sue sfaccettature e i suoi lati oscuri, e che risulta convincente per il suo analizzare e smontare le forme le dinamiche  del racconto epico-mitico (in quanto, come ricorda l’autore, «il mito si mette in crisi con un altro mito, intervenendo sulla trama»). Il primo saggio è dedicato all’icona di T.E. Lawrence, il leggendario Lawrence d’Arabia, la prima pop star contemporanea, e il suo libro I sette pilastri della saggezza che vuole essere un intreccio di storia e mitopoiesi: la costruzione a posteriori della vicenda del colonnello Lawrence è un vero e proprio romanzo epico moderno, anzi un poema epico in prosa, con protagonista una moderna visione dello straniero occidentale che compie un’opera di civilizzazione, come Teseo, Giasone, Enea e Beowulf. Viziato da un orientalismo di fondo che gli apparteneva per letture e formazione, ma anche profondo conoscitore delle crociate, Lawrence conosceva bene tutti i cicli letterari dell’Europa medievale, quello cristiano dei paladini e quello arturiano, e sapeva bene che dietro una grande impresa (nella fattispecie, l’eroe che porta alla vittoria un popolo di beduini del deserto) c’è sempre anche il poeta che la canta. Il secondo testo parte dalla concezione secondo cui l’eroe si carica di un’istanza collettiva e dei problemi di tutti, e pertanto si concepisce come guerriero, solitario di fronte ai nemici della collettività. I protagonisti della tragedia greca, che incorrevano spesso nel peccato di hybris, concetto che si colloca tra la superbia e la prevaricazione e che ha a che fare con la rottura delle leggi armoniche che reggono il cosmo: in questo caso, l’eroe fallisce nella propria missione di ristabilire l’equilibrio e accelera invece il caos. C’è poi un altro problema, quello della coerenza etica di cui un personaggio si fa carico, che diventa un rischio quando essa finisce per determinare i suoi gesti e richiedere un sacrificio che non è utile alla collettività: è il caso del condottiero Byrhtnoth raccontato da Tolkien che, alla battaglia di Maldon, per estrema coerenza alla sua immagine eroico-cavalleresca, decide di non sfruttare il vantaggio del terreno e di non sconfiggere i vichinghi ma di affrontarli in campo aperto come volevano le leggi della cavalleria e della sportività, di fatto consegna il suo paese e la sua gente agli invasori. Il terzo saggio si avvale invece di una tragedia classica (Aiace di Sofocle), un poema medievale (Sir Gawain e il Cavaliere Verde) e due romanzi novecenteschi (La Santa Rossa di Steinbeck e Il Signore degli Anelli di Tolkien) per riscoprire l’ineludibilità dell’approccio femminile all’impresa eroica e sottolineare il rapporto necessario tra l’eroe e i personaggi femminili (con vari riferimenti alla declinazione delle diverse tipologie della cosiddetta figura archetipica della “Dea”, in omaggio al modello del Robert Graves dei Miti Greci): l’eroe che non è disposto ad avvalersi dell’aiuto femminile è destinato a fallire e a subire una nemesi, come Aiace, che compie il suicidio del samurai immolandosi sulla spada perché è stato disonorato e non può sopravvivere alla sua immagine distrutta, cedendo in questo modo il passo a Odisseo, che gli ha soffiato le armi di Achille ma che si rivela un eroe molto più umano e legato alle relazioni (ad Aiace infatti non importa di lasciare una vedova e un figlio orfano che piangeranno la sua scomparsa: quello che gli importa è vivere bene e morire bene, e questa per lui è la nobiltà d’animo). Emerge quindi un eroismo che fa della relazione con la componente femminile del mito il proprio punto di forza e costituisce la base di una nuova teoria del coraggio, lontana dall’etica guerriera e sacrificale: è il caso di Galvano, che testa i valori morali, etici ed eroici di un’intera comunità e riporta per quella comunità una lezione importante sulla fallibilità dell’eroe, e degli hobbit di Tolkien, a tutti gli effetti eroi borghesi, e borghesi non in senso negativo o riduttivo, anzi, borghesi perché legati a una certa materialità, alle cose del vivere quotidiano, alla natura e a una vita comune di affetti e relazioni, ed è proprio questa una delle ragioni della loro forza. Inoltre, alla fine del primo saggio, Wu Ming 4 evoca la figura archetipica del sopravvissuto, colui che va alla deriva dopo una catastrofe, in cerca di un approdo. Alla fine del secondo testo, con una radicalizzazione tematica, il sopravvissuto diventa un ribelle, che rifiuta lo scontro campale e sceglie la guerriglia boschiva, antielitaria e quindi antieroica, sacrificando l’idealità al bene comune. Nel terzo saggio, il fuggiasco che si era fatto guerriero diventa seminatore, dedito non solo alla sopravvivenza di sé e della propria lotta, ma alla vita nelle sue forme più ricche e articolate: una specie di ricerca di una terza via che riesca a superare da un lato la rozza ideologia che sottomette tutto al mito e la visione del virile condottiero salvatore, dall’altro il disincanto postmoderno e il minimalismo dell’umano senza qualità.

domenica 10 novembre 2013

James Ellroy - Dalia Nera

Ammetto la mia ignoranza: pur amando profondamente il genere noir, non avevo mai letto niente di James Ellroy, il più celebre scrittore hard-boiled contemporaneo. Ho però visto più volte i film tratti dai suoi romanzi, il bellissimo L.A. Confidential di Curtis Hanson e l’interessante (anche se da più parti criticato) Black Dhalia di Brian DePalma. Ho quindi scelto di cominciare proprio con Dalia Nera, universalmente riconosciuto come uno dei suoi capolavori e avendo già dimestichezza con la sua controparte cinematografica. Il romanzo è incentrato sull’indagine intorno al brutale omicidio di un’attricetta di serie zeta, Elizabeth Short, il cui corpo fu ritrovato orrendamente mutilato e torturato con perizia chirurgica nel gennaio del 1947 a Los Angeles. Fatto realmente accaduto, questo, e talmente efferato che la polizia non diffuse mai le immagini del suo cadavere straziato: il nome Dalia Nera fu affibbiato alla vittima ancor prima che venisse identificata e si riferiva sia a un famoso film, La dalia azzurra, sia all’abitudine della donna di vestire di nero. Ellroy ci costruisce intorno una storia che vede protagonisti due poliziotti, ex pugili, Dwight “Bucky” Bleichert e Lee Blanchard, “un eroe e una spia”, “Fuoco e Ghiaccio”: il primo, di origini tedesche e con un padre affetto da demenza senile, durante la Seconda Guerra Mondiale, per vivere tranquillo, ha scaricato gli amici giapponesi; il secondo è ossessionato dalla scomparsa della sorellina e vive con Kay Lake, donna dal passato burrascoso ed ex pupa di un criminale sbattuto in galera dopo una rapina dai contorni mai veramente chiariti. I due diventano colleghi e quindi amici e confidenti dopo un incontro di boxe benefico, e finiscono a indagare sul caso della Dalia Nera, che diventerà per loro un’ossessione. A narrare la vicenda è, ovviamente in prima persona (da scuola hard-boiled), Bleichert, tipico esempio del poliziotto noir, personaggio duro e intimamente solo, dal mondo interiore complesso, in bilico tra realtà e sogno/suggestione: inizia un pericoloso triangolo con Kay e Lee (facilitato dall’improvvisa e misteriosa sparizione di quest’ultimo), ma allo stesso tempo è sempre più attratto dall’enigmatica e ambigua Madelaine Sprague, figlia di uno degli uomini più importanti della città, che si scopre avere un oscuro legame con la vittima e si veste addirittura come lei. L’ossessione di Bleichert per la Dalia è completa, tanto da spingerlo a cercarla negli altri (soprattutto nelle donne), a vendicarla e in qualche modo a proteggerla, a costo della sua vita privata e della sua carriera: in questo si vede espressa l’ossessione dello stesso Ellroy nel voler scoprire l’assassinio della madre, Geneva Hilliker, alla quale il libro è dedicato e assassinata in circostanze più o meno simili a quelli di Elizabeth Short. Una specie di percorso terapeutico attraverso la letteratura e, allo stesso tempo, un viaggio da incubo nel ventre nero di Los Angeles, città mai così dannata e popolata da ombre minacciose. Mescolando realtà e finzione, e raccontando la vicenda di una starlet che al cinema neanche ci arriva e si ferma al livello del sogno (finendo in un tunnel discendente e passando da un letto all’altro fino alla degradazione del cinema hard), Ellroy è straordinario nel descrivere un mondo torbido come quello del sottobosco di Hollywood (o Hollywoodland, come ancora si chiamava, e che proprio in questi anni cambia nome) fatto di scannatoi, prostitute, bar di lesbiche, droga, alcol e ricatti (con i soliti capitalisti che fanno i loro comodi e non pagano mai le loro colpe), e di un Messico putrido e violento dove si trova solo la morte. Come in tutti i veri noir, confonde il confine tra il bene e il male, annulla le contrapposizioni manichee e ribalta i ruoli, facendo sì che le vittime non siano mai immuni da vizio e corruzione. Anche se nel finale c’è speranza.

sabato 9 novembre 2013

Mark Millar, John Romita Jr. - Kick-Ass

Per quanto mi sia sempre interessato all’argomento, non sono mai stato un vero appassionato di fumetti. Non di quelli di supereroi, almeno. A loro mi sono avvicinato più con le trasposizioni cinematografiche, ma, per quanto li apprezzi, che mi mettessi a seguire le evoluzioni cartacee di Superman, Batman, Spiderman e Hulk non mi è mai passato per la testa. È quindi doveroso premettere che la mia conoscenza dell’argomento è parziale per non dire minimo, e che mi mancano gli strumenti per apprezzare in pieno opere del tutto citazioniste e derivative come questo Kick-Ass di Mark Millar (testi) e John Romita Jr. (disegni), che prosegue nel solco tracciato da Watchman di Alan Moore, quello della demitizzazione e la dissacrazione del supereroe, cioè del supereroe senza superpoteri nel mondo reale: in questo caso, un nerd qualsiasi che decide di indossare un costume per combattere il crimine nella New York di oggi. Un fumetto duro, crudo, deliberatamente e gratuitamente violento, un po’ volgare, ma autenticamente ironico e divertente, che fa scorrere sangue in stile pulp e usa tutti i possibili stereotipi di genere, li storpia e ci gioca, non vergognandosi di includere nel suo calderone i simboli della cultura pop e mainstream (le serie tv Heroes e Buffy, oltre a eBay, YouTube e MySpace). È la storia di Dave Lizewski, un nerd sfigatissimo e fissato con i supereroi che legge fumetti dalla mattina alla sera e si finge gay (e vittima di abusi) pur di frequentare la compagna di classe di cui è innamorato; un giorno, mosso dalla domanda «Cristo… perché c’è gente che vuole diventare Paris Hilton e nessuno che vuole diventare Spiderman?», decide di procurarsi su internet un costume a metà strada tra una muta da sub e una tuta da sci e di cominciare a combattere il crimine pattugliando le strade, diventando un supereroe senza superpoteri (un po’ come Batman): la sua prima impresa, in realtà, gli riesce molto male, tanto che finisce massacrato, pugnalato e investito da un’automobile ed è ricoverato per sei mesi in ospedale. Sfiduciato e depresso, decide di bruciare tutti i suoi fumetti e appendere il costume al chiodo, ma in breve (leggi: nella pagina successiva) ci riprova e pesta (grazie a delle mazze che porta sulla schiena) una banda di rapinatori portoricani e viene ripreso da un passante che mette il video su YouTube: improvvisamente diventa una celebrità con il nome di Kick-Ass e apre un profilo su MySpace dove la gente comincia a chiedergli aiuto. Così facendo s’imbatte in altre due persone che si spacciano per supereroi, Bid Daddy, un ex poliziotto incastrato dal boss della droga John Genovese e sua figlia Hit-Girl, una tenera bambina di nome Mindy che in realtà è stata educata dal padre come una ninja assassina (e si presenta subito così, fin dalla prima vignetta) per aiutarlo a vendicare la moglie (l’ha allenata a picchiare all’incitamento «Ancora! Più forte! Colpiscilo come se fosse Michael Moore!» e a ripetere «Democratico è quel coglione che marcia per il diritto di uccidere i bambini e che poi organizza le veglie di lutto per i serial killer»). Bid Daddy e Hit-Girl hanno cominciato a massacrare gli uomini di Gambino, ma il boss pensa che il responsabile sia proprio Kick-Ass: al neonato terzetto si aggiunge infine la nemesi del protagonista, Chris Gambino, figlio di John, anche lui nerd incallito, che si spaccia anche lui per supereroe con il nome di Red Mist. L’intera opera è strutturata come un diario, una sorta di lungo flashback del protagonista, che non riesce a sottrarsi alla meravigliosa follia che l’ha investito perché ha scoperto che indossare un costume da supereroe lo fa uscire da una vita piatta e gli fa acquisire autostima («Una parte di me voleva mettersi a piangere. Ma l’altra stava avendo un orgasmo da nerd. Era questa la merda che avevo sempre sognato»). Divertenti i colpi di scena finali, e degna di ammirazione la convinzione che un nerd sfigato, nella vita reale, resta uno sfigato anche se indossa una muta da sub.

domenica 3 novembre 2013

Howard PhilIips Lovecraft, I.N.J. Culbard - Le montagne della follia

Lovecraft è difficile da leggere, figuriamoci da trasporre a fumetti. Almeno, bisognerebbe avere una grande preparazione culturale e letteraria, cosa che purtroppo credo mancare a I.N.J. Culbard, autore di questo adattamento de Le montagne della follia (di cui ho parlato QUI nella sua versione tradizionale) pubblicato dalla Magic Press. La trama è quella classica, e famosissima, dell’esumazione di strani reperti fossili dai ghiacci nel corso di una spedizione antartica della Miskatonic University, e delle rivelazioni sconvolgenti che seguono il ritrovamento di una città di antichità incredibili, nascosta oltre le vette di montagne sconosciute e altissime. È triste constatare, però, che alla fine non resta la sensazione di aver letto Lovecraft. Di Culbard si apprezza di più lo sforzo narrativo (l’originale lovecraftiano salta avanti e indietro nel tempo e non ha scambi di dialoghi) che quello stilistico: i suoi primi piani grossolani e caricaturali (mortificati da una colorazione infelice) sono del tutto inadatti a suggerire l’orrore cosmico dello scrittore americano (per dire, i Grandi Antichi sono rappresentati come dei pupazzetti). Meglio se la cava con i paesaggi e le architetture (come nell’immagine in copertina), che in qualche modo suggeriscono il senso d’inquietudine e di sorpresa degli esploratori, ma è comunque troppo poco.

Stieg Larsson, Sylvain Runberg, José Homs - Uomini che odiano le donne. Millennium Volume 1

Non ci avrei mai potuto credere nemmeno io, ma della saga dello scrittore svedese Stieg Larsson sono diventato un affezionato: prima il film svedese, poi l’intera trilogia romanzesca edita da Marsilio, quindi il remake cinematografico americano, infine questo fumetto tratto dal primo capitolo Uomini che odiano le donne a firma del franco belga Sylvain Runberg (testi) e José Homs (disegni), quest’ultimo parte della scuderia degli artisti Marvel. Dopo tanto successo, la trama della graphic novel (pubblicata da Rizzoli Lizard) non poteva che essere la fedele riproposizione di quella del romanzo (di cui ho già parlato QUI), nonostante qualche snellimento e un ritmo più incalzante: condannato ingiustamente per aver fatto la guerra a un grosso uomo d’affari, il giornalista impegnato Mikael Blomkvist è assunto da Henrik Vanger, vecchio patriarca dell’industria ossessionato dalla scomparsa dell’adorata nipote Harriet 40 anni prima. La sua strada s’incrocia con quella di Lisbeth Salander, abilissima hacker, dark dalla scorza dura, vittima di un passato (e di un presente) di abusi e violenze. Runberg e Homs non tralasciano nulla, a cominciare dalla violenza presente nel romanzo: stupri, perversioni d’ogni tipo, neonazismo, antisemitismo. Addirittura, inframezzano la narrazione con le scene di alcuni dei delitti femminili a cui la vicenda è connessa. A livello visivo, l’opera è un ibrido che si colloca a metà strada tra il fumetto americano e quello europeo, dai tratti angoscianti ma dai colori caldi, spiazzanti per chi (come me) si è sempre immaginato una storia dai toni nordici e postindustriali. Mentre Blomkvist è un vichingo biondo, alto e dalla mascella prominente, Lisbeth è molto simile a quella interpretata da Noomi Rapace nel film svedese: segno che, forse, a livello iconografico, la saga di Stieg Larsson aveva già trovato una sua identità ben precisa, e che questa versione a fumetti non aggiunge nulla a quanto già fatto. Però è piacevole, e Stoccolma è ricostruita abbastanza bene.