lunedì 30 settembre 2013

Alan Moore, David Lloyd - V for Vendetta

Lo si voglia o no, Alan Moore è un genio. Ci arrivo tardi, e soprattutto dopo che il resto del mondo se ne è già accorto da decenni, ma l’ho pensato anche durante la lettura di V for Vendettagraphic novel apparsa incompiuta sulla rivista inglese “Warrior” nel 1981 e poi completata nel 1989 per la DC Comics, e qualche anno fa presa come spunto per un mediocre e discutibile film che ne ha snaturato il senso e ha imposto la maschera di Guy Fawkes come simbolo standardizzato per le rivoluzioni politicamente corrette del mondo globale, senza capire la provocazione di far indossare a un combattente anarchico la maschera di un integralista religioso. La storia si svolge in una Gran Bretagna futuristica e distopica dove un regime totalitario di tipo fascista ha preso il controllo in seguito a un conflitto nucleare, controlla la televisione e la radio e sorveglia costantemente mediante intercettazioni ambientali una popolazione ormai totalmente assuefatta al regime, con un dittatore (Adam Susan) chiamato semplicemente Leader e talmente convinto della sua missione religiosa di salvatore e padre della patria da scivolare nella degenerazione e nella pazzia. In questo ambiente si muove V, un personaggio emblematico e affascinante, in possesso di doti fisiche e mentali fuori dal comune, travestito con una maschera che replica le fattezze del cospiratore Guy Fawkes, che nel 1605 (all’epoca di Giacomo I Stuart) tentò di far altare con l’esplosivo il parlamento inglese a Londra. Nascosto nel suo rifugio costruito vicino a una stazione abbandonata della metropolitana (dove ha stipato tutto quello che è riuscito a salvare: film, libri, musica, manifesti, teatro), V è un anarchico che parla per aforismi e citazioni (Shakespeare, Yeats e Blake, tra gli altri) e decide di rovesciare il regime per riportare l’anarchia nel Regno Unito attraverso un piano teatrale, eversivo e molto articolato: salva Evey Hammond, che un giorno salva mentre sta cercando di prostituirsi durante il coprifuoco dalle grinfie di un gruppo di agenti governativi, la introduce con la violenza nel suo mondo solitario e doloroso, nonché alle sue iniziative rivoluzionarie, trasformandola in complice ed erede. Sulle sue tracce c’è Finch, il grigio ma integro poliziotto che gli dà la caccia e che porta alla luce molte cose del suo passato, come il fatto di essere l’unico a essere sopravvissuto al campo di concentramento dove venivano rinchiusi gli emarginati e le minoranze etniche e che da lui è stato fatto saltare in aria con un esplosivo derivato da un fertilizzante (per questo V è rimasto sfigurato ed è stato costretto a indossare una maschera, anche se la sua faccia non la vediamo mai, nemmeno alla fine). Nella sua crociata, V inizia così a vendicarsi anche dei suoi carcerieri e dei dottori che hanno abusato di lui, riuscendo per giunta a distruggere il sistema di sorveglianza del partito e a prendere possesso delle trasmissioni televisive, facendo precipitare Londra nel disordine. Non priva di qualche particolare eccessivamente didascalico nel suo essere libertaria a tutti i costi (Finch che, strafatto di LSD, prende coscienza della sua complicità con il regime e sente la mancanza di quel calore umano rappresentato dalla differenza etnica e dai gay pride), V for Vendetta è un’opera violenta, ideologica, visionaria, plumbea, disturbante, pessimista e per nulla consolatoria (prova ne è l’assenza di lieto fine), ben servita dalle atmosfere create dai disegni di David Lloyd (con i loro toni cupi e i chiaroscuri forzati), che riflettono perfettamente il clima opprimente del regime e lo squallore esistenziale di una società standardizzata e senza speranza. Come per Watchmen e From Hell, Moore crea una molteplicità di sottotrame che s’incastrano alla perfezione e che vedono molti comprimari ai vertici delle varie sezioni del regime impegnati nei giochi di potere e nel repertorio di vizi e perversioni (il sadomasochismo dei coniugi Almond, le tendenze pedofile del primate anglicano) che si accompagnano a una dittatura. Non mancano riflessioni note (i pericoli del totalitarismo, i limiti della libertà individuale) e uno struggente lato romantico (anche se sui generis), così come la valenza simbolica legata al nome di V, che in latino è il numero 5: l’azione si svolge spesso il 5 novembre, giorno della Congiura delle Polveri (l’incidente al campo di concentramento, l’attentato all’Old Bailey e quello al Parlamento), viene citata la quinta sinfonia di Beethoven e V si esprime in pentametro giambico (in una scena addirittura legge il romanzo V di Thomas Pyncheon). Numerosissimi sono i riferimenti letterari: 1984 di Orwell per il regime dispotico e onnipresente; Il Conte di Montecristo di Dumas per la seconda vita da giustiziere e vendicatore di torti del protagonista e per la sua propensione a far soffrire le persone a lui care attraverso prove e sofferenze; Il Fantasma dell’Opera di Leroux per la maschera e il nascondiglio del protagonista, oltre alla presenza femminile che lo accompagna; senza contare accenni nella figura di V che richiamano Zorro, Robin Hood e Batman.

domenica 22 settembre 2013

Robert Bloch - Jack lo squartatore

Un romanzo su Jack lo squartatore, e per di più dell’autore di Psycho? Imperdibile, direte voi. Non proprio. È vero che questo Night of the Ripper risale al 1984, in un’epoca in cui non si era ancora invasi dalla babele di materiale sull’argomento (e soprattutto, non era ancora uscito From Hell di Alan Moore, opera talmente titanica, complessa e affascinante da chiudere ogni possibile replica o imitazione), ma la delusione è tanta. Gli omicidi sono riscostruiti nel dettaglio, attingendo alle fonti di cronaca e ai referti ufficiali, ma il resto è lasciato alla fantasia di Robert Bloch. A condurre le indagini c’è il solito ispettore Abberline, questa volta perseguitato da problemi gastrici e assistito dal dottor Mark Robinson, alle prese con una lista di sospettati a dir poco enorme che include nobiluomini, macellai, un ciabattino, un tagliatore di pelli e un folto gruppo di medici. L’autore è abile nel creare un’aria di sospetto che gravita su tutti i personaggi che entrano in scena, in modo tale da dare sempre l’impressione che l’efferato omicida delle prostitute sia uno di loro, mentre è interessante notare come non siano riportate le teorie di complotti massonici che vanno oggi per la maggiore. Al contrario, sfilino i consueti personaggi della mitologia dello Squartatore: Sir William Gull (medico della regina vittoria), il medium Robert Lees, il duca di Clarence (come al solito in odore di omosessualità e frequentatrice di prostitute nella zona di Whitechapel), l’attore Richard Mansfield, addirittura Arthur Conan Doyle, George Bernard Shaw e Oscar Wilde (definito da Abberline un “finocchio”), per non parlare di Joseph Merrick, l’Uomo Elefante. Purtroppo, Bloch crolla proprio nella ricostruzione d’ambiente, che a mio avviso è uno dei motivi principali del fascino dell’intera vicenda (una Londra infernale, e che non c’è più, nel cuore della capitale del più potente impero dell’epoca), ma anche come autore di thriller non riesce a tenere tutti i fili della narrazione, che infatti tende a sfilacciarsi e a perdere mordente, fino a un finale che ho trovato parecchio moscio. L’unico guizzo il nostro autore lo dimostra solo con l’incipit dei vari capitoli che riportano una citazione storica di atrocità, torture e violenze che vanno dal 2300 a.C. al 1887 d.C., giusto un anno prima dell’inizio dell’attività del nostro caro Jack, e che includono il solito Vad Tepes di Transilvania che impalava i suoi nemici e lo zar Ivan IV che, dal momento che si annoiava nel guardare i prigionieri girare lentamente su uno spiedo e arrostire sopra un fuoco basso, lo sostituì con una grande padella di ferro in cui venivano fritte le sue vittime; oppure l’ungherese György Dósza, capo di una rivolta contro i nobili, catturato e tenuto a digiuno per due settimane insieme ai suoi complici: «i sui carcerieri lo legarono a un tronco incandescente, gli posero in testa una corona incandescente e gli misero in mano uno scettro incandescente. Mentre arrostiva, fu mangiato vivo dai suoi seguaci affamati». Una trovata che vuole dimostrare come la violenza sia insita nel DNA dell’essere umano, e che trova conferma nel comportamento dello Squartatore.

Alessandro Ferrari, Max Narciso, Marieke Ferrari - Alice in Wonderland. La storia a fumetti dal film di Tim Burton

Ne ho già parlato anni fa (QUI per chi ne fosse interessato) in seguito alla lettura del libro basato sulla sceneggiatura di Linda Woolverton di Alice in Wonderland, che mi era pure piaciuto per l’idea di rinnovare il personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie. Purtroppo, a distanza di anni, posso dire che il film di Tim Burton che ne è stato tratto non è stata la cosa più riuscita del visionario regista americano (che amo), come se l’intromissione della Disney (che la pellicola l’ha prodotta e gliel’ha commissionata, tempo dopo aver già scritto la sceneggiatura) lo avesse in qualche modo frenato, impedendogli di padroneggiare fino in fondo la materia trattata. Aggiungiamoci poi che un’opera del genere in italiano perde almeno più di metà del suo fascino per colpa di una traduzione che, per forza di cose, cambia il nome del mostro da Jabberwocky a “Ciciarampa” e modifica i versi strambi e pieni di neologismi di Lewis Carroll (molto familiari al pubblico di lingua inglese ma del tutto sconosciuti dalle nostre parti) in oscure frasi senza capo né coda. Peccato, perché l’idea di un’Alice diciannovenne che, anziché rispondere alla domanda di matrimonio di un nobile poco attraente, segue il coniglio bianco e si ritrova nel mondo incantato che sognava da piccola, e ora soggetto alla dittatura della malvagia Regina Rossa, era molto intrigante. Soprattutto, era apprezzabile il desiderio della protagonista di autoaffermazione ribelle nel mondo reale come frutto dell’immaginazione maturata in quello dei sogni fatti da bambina, spalleggiata in questo dallo spirito sovversivo e anticonformista del Cappellaio Matto. Proprio su questa versione della storia si basa questa graphic novel che ha adattato lo script originale (attraverso il lavoro di taglio e modifica di Alessandro Ferrari) e ne ha affidato la realizzazione tecnica a Max Narciso (matite e chine) e Marieke Ferrari (colore). Se conoscete il film sapete cosa aspettarvi, perché la storia è la stessa, solo molto più succinta, con uno stile davvero peculiare: in più, tutti i retroscena della creazione del fumetto e della genesi artistica di sceneggiatori e disegnatori. Certo non un capolavoro, ma un’occasione in più per entrare nell’affascinante mondo burtoniano.

domenica 8 settembre 2013

Arto Paasilinna - L'anno della lepre

Se pensate che gli scandinavi siano sempre depressi e inclini al suicidio, questo è il libro che fa per voi. Di non stretta attualità editoriale, essendo stato pubblicato nel 1975 e pubblicato da Iperborea (nel suo inconfondibile formato alto e stretto) nel 1994, L’anno della lepre del finlandese Arto Paasilinna è un delizioso romanzo umoristico on the road a sfondo ecologista che interpreta il desiderio poetico di fuga dall’inappagante realtà quotidiana. Il protagonista è un giornalista quarantenne, Vatanen, che una sera, tornando in macchina a Helsinki da un servizio fuori città con un collega fotografo, investe una lepre, che fugge ferita nel bosco. Vatanen la insegue, vede che ha una zampa rotta e la soccorre, sparendo con lei nel bosco, sordo ai richiami del collega. Da questo momento inizia il racconto delle sue stravaganti (e spesso esilaranti, dissacranti e surreali) avventure, un viaggio (a suo modo “iniziatico”) che è un pellegrinaggio senza meta verso nord, di villaggio in villaggio, di foresta in foresta, lungo la Carelia, in fuga da un lavoro vuoto e opprimente, da una moglie insopportabile, da una società conformista e perbenista: incontra un ex commissario ora pensionato che fa il pescatore, convinto che il presidente finlandese Kekkonen sia stato sostituito da un sosia partendo dall’analisi del suo cranio nel corso di vari anni (e la prova sarebbe costituita dal fatto che anche il suo modo di pensare è cambiato, essendo divenuto più progressista, più giovane di spirito, al punto di fare scherzi in pubblico); durante un incendio nella foresta si imbatte in un uomo pieno di grappa e disperato di aver perso tutto nell’incendio, tranne i primi dieci litri di liquore da lui distillato clandestinamente, e finiscono così per sbronzarsi, dimentichi della foresta che brucia; subito dopo, Vatanen incontra un guidatore di bulldozer impazzito che si arena in mezzo a un lago pretendendo di essere salvato, e aiuta una mucca a partorire e la salva da una palude. In un villaggio, un pastore luterano cerca di vendicarsi della lepre che gli ha seminato palline di sterco davanti all’altare sparandole dentro la chiesa con il risultato di ferirsi a un piede; Vatanen incappa nel cadavere di un vecchio e viene accusato di profanazione di cadavere, quindi, sempre peregrinando, in un vecchio tagliaboschi lappone a cui insegna a nuotare nel fiume ghiacciato e con sui si ritrova a recuperare e vendere residuati bellici della Seconda Guerra Mondiale; fronteggia un corvo che fa razzia delle sue provviste e un seguace della religione primitiva che gli sottrae con l’inganno la lepre per sacrificarla agli dei pagani; viene coinvolto in una caccia all’orso durante un programma di operazioni militari per le ambasciate straniere, quando una signora svedese non intende restituire la lepre e Vatanen deve intrufolarsi a un noiosissimo pranzo diplomatico; recuperata la lepre, fugge da un incendio, si risveglia da una pesante sbornia e scopre di essersi fidanzato, ha una brutta avventura a sud e torna a nord a caccia dell’orso già incontrato, lo affronta e lo segue fin oltre il confine con l’Unione Sovietica. Ed è al ritorno nella burocratica Finlandia che lo spirito anarchico e sovversivo di Vatanen, insieme alla sua volontà di inseguire la libertà, ha il decisivo sopravvento. Concedetegli una possibilità: Paasilinna vi conquisterà.

Jack London - Il popolo degli abissi

Non avevo mai letto niente di Jack London, né Zanna Bianca né Il richiamo della foresta. Ho cominciato da quest’opera minore e per lo più sconosciuta (caratterizzata, almeno nella sua versione ebook, da una delle copertine più ributtanti e prive di senso che mi sia mai capitato di vedere) che mi ha attirato per la sua descrizione dell’East End londinese di inizio Novecento, uno dei quartieri più malfamati e poveri che si possano immaginare, già teatro (14 anni prima) delle gesta di Jack lo Squartatore e oggi radicalmente trasformato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, dall’immigrazione delle ex colonie indiane e da una riqualificazione urbana piuttosto consistente (sebbene non trascendentale). Non è un romanzo, e non è nemmeno un saggio: è un libro dallo spiccato taglio sociale e pervaso di spirito polemico con simpatie socialiste che si colloca a metà strada tra la letteratura e il giornalismo e che nasce dalla volontà dello scrittore americano, in controtendenza con quanti si limitavano a cantare le glorie dell’impero britannico (e che lo consigliarono sgomenti di percorrere l’East End senza debita scorta armata, proponendogli di raccontargli loro la situazione della zona, al riparo di quattro eleganti mura di un hotel di lusso), di calarsi, per un certo periodo, tra gli sventurati abitanti dei sobborghi londinesi, dove l’alcolismo, la denutrizione e la criminalità la facevano da padroni. Convinto della necessità di vedere da vicino e toccare con mano una realtà prima di scriverne, si travestì da marinaio, dormì nelle baracche, frequentò poveri, prostitute e disoccupati, quel “popolo degli abissi” cui fa riferimento il titolo, costituito da masse di diseredati spesso senza la benché minima speranza o aspettativa per un domani migliore, schiavizzati da un lavoro retribuito con salari da fame che garantiva una stanza in affitto che assorbiva il 50% delle entrate (il resto serviva per un po’ di carbone per il riscaldamento e del cibo raffermo, rinunciando a vestirsi). Il popolo che descrive London non è però una massa informe, trattata come un astratto oggetto di indagine sociologica: al contrario, è fatto di individui, con nomi, volti e storie personali. Le descrizioni dello scrittore americano sono veramente raccapriccianti e fanno da lugubre contraltare alla scintillante incoronazione di Edoardo VII, descritta in un capitolo come triste spettacolo della magniloquenza dell’Inghilterra imperiale: le stanze venivano affittate a spazi e a tempo, con lo stesso letto che veniva ceduto a turno a persone che lavoravano in base a turni diversi; i morti venivano tenuti in casa per giorni per l’impossibilità di pagare le spese funebri (magari sul tavolo su cui si mangiava); la precarizzazione del lavoro faceva sì che, anche per un infortunio di poco conto, chi non poteva lavorare per alcuni giorni era condannato a una discesa che era l’anticamera dei ricoveri per senzatetto o a una vita sulla strada, avversata dalla polizia che arrestava gli accattoni. Lo scrittore tuona contro i filantropi da salotto del West End che non capiscono la necessità di strappare migliaia di persone a un ambiente nocivo e contro la classe dirigente che ha costruito un progresso a cui non è seguito un miglioramento della condizione di vita per tutti gli strati della società, arrivando a dire che gli Inuit dell’Alaska, pur se catalogati come “selvaggi”, vivevano decisamente meglio dei lavoratori della cristiana Londra. È passato un secolo, ma è un testo (ahimè) decisamente attuale.

Jacopo Pezzan e Giacomo Brunoro - Jack lo squartatore

Chi non ha mai sentito parlare di Jack lo squartatore? Nessuno, penso, a partire dalla sua iconografia classica che lo vuole armato di coltello e avvolto da mantello e cilindro e che è stata capace di generare un certo fascino e un seguito affezionato (chi scrive si è fatto tre volte il giro turistico organizzato sui luoghi dello squartatore partendo dalla stazione di Tower Hill). Forse pochi conoscono però con precisione le sue gesta, così come quante donne ha ucciso. Questo devono aver pensato gli autori di questo libretto edito da Le Case Books per una collana emblematicamente Serial Killer (disponibile, tra l’altro, solo in ebook) e dedicato alla figura del serial killer più famoso di tutti i tempi, paradigma di tutti quelli che l’avrebbero seguito, la cui identità è rimasta ignota sino a oggi ed è materia per infinite congetture (basate, per lo più, su false teorie e sospetti), ma che per tre mesi, nell’autunno del 1888, seminò il terrore nel quartiere londinese di Whitechapel, massacrando prostitute a cui, di volta in volta, portava via una parte del corpo (un rene, l’utero, il cuore) e scrivendo lettere provocatorie (almeno tre, ma non si sa se autentiche) alla polizia, per poi svanire nel nulla dopo l’ultimo delitto. L’ambientazione, innanzitutto: la Londra del 1988, cioè la capitale del più grande impero del mondo, in un quartiere, Whitechapel, parte di quell’Est End in cui dominava la miseria e che era il risultato dell’inurbamento di enormi masse di persone per effetto della rivoluzione industriale e dell’arrivo di comunità straniere (soprattutto ebrei), con condizioni di vita animalesche, un’altissima mortalità infantile, la piaga sociale dell’alcol e la prostituzione largamente diffusa (nel solo quartiere di Whitechapel, in quell’anno, esistevano 60 bordelli e 1.200 prostitute regolari, senza contare quelle occasionali). I fatti: una serie di efferate uccisioni, cinque, se seguiamo i cosiddetti delitti “canonici”, quelli riconducibili allo stesso modus operandi (risultano di dubbia attribuzione un certo numero di delitti che presentano alcune caratteristiche riconducibili agli altri ma che non convincono del tutto gli esperti). Le vittime: Polly Nichols, Annie Chapman, Elizabeth, Catherine Eddowes e Mary Jane Kelly, tutte donne che, in cambio di favori sessuali, guadagnavano quel poco che consentiva loro di bere birra e pagarsi l’affitto in pensioni di infimo ordine. In maniera succinta ma esauriente, e con l’ausilio di alcune fotografie (le vittime, i sospettati e una cartina della zona), gli autori ricostruiscono tutti i delitti avvalendosi di testimonianze, articoli di giornale e reperti ufficiali, riportano gli errori della polizia, dovuti in larga parte all’arretratezza delle indagini dell’epoca e alla mancanza di strumenti scientifici adeguati (anche se si prendevano per vere bizzarre teorie come quella della fotografia dell’iride oculare, credendo che l’occhio di un cadavere potesse immagazzinare e restituire l’ultima immagine vista in vita dalla vittima), e prendono uno per uno i sospettati analizzando la plausibilità delle accuse nei loro confronti in base alle varie teorie avanzate nel corso degli anni (compresa quella famigerata del complotto reale, seguita da From Hell di Alan Moore e alla base del film Assassinio su commissione e La vera storia di Jack lo squartatore, ovvero quella secondo cui i delitti sarebbero stati commessi da Sir William Gull, medico personale della regina Vittoria, per coprire il matrimonio cattolico del nipote ed erede al trono della regina con una prostituta cattolica, da cui sarebbe nata una figlia: le vittime degli omicidi sarebbero state le prostitute amiche della moglie che erano a conoscenza di questo segreto, anche se non c’è alcuna prova a supporto di questa teoria e neanche del fatto che le vittime si conoscessero), fino alla teoria abbracciata dalla scrittrice Patricia Cornwell del pittore Walter Sickert e a quella secondo cui lo squartatore in realtà sarebbe stato una donna. Una girandola di ipotesi più o meno avvincenti che si collocano tra il cialtronesco e il fantascientifico, per la natura di mito pop che la vicenda assunse sin dalla sua epoca: per la prima volta, infatti, una vicenda criminale venne data in pasto al grande pubblico attraverso il neonato circolo massmediatico dei giornali scandalistici, che si davano battaglia a colpi di scoop sensazionali e che, di fronte al rifiuto della polizia di condividere le informazioni in suo possesso, ricorrevano alla fantasia e all’invenzione. Da parte sua, la polizia non se ne stette di certo con le mani in mano, mettendo alla propria attenzione oltre 2.000 persone, delle quali 300 vennero formalmente indagate e 80 arrestate (per poi essere rilasciate). Non ci si deve aspettare una ricostruzione così esauriente, anzi, le lacune ci sono e piuttosto evidenti (il libro non dice nulla sulle sovrapposizioni tra Metropolitan Police e City Police nella zona degli omicidi, così come non accenna alle dimissioni di Charles Warren, capo della Metropolitan Police), ma per farsi un’idea è un buon punto di partenza: per tutti gli altri, è meglio leggersi il titanico From Hell di Alan Moore, le cui appendici rivelano una conoscenza dell’argomento di gran lunga superiore.