martedì 28 giugno 2011

Stieg Larsson - La regina dei castelli di carta

Ora che ho finito anche questo terzo capitolo della trilogia Millennium (la chiamiamo così solo per la prematura dipartita del suo autore, che pare avesse in realtà progettato una saga di dieci volumi) mi sento in dovere di dire che il povero Stieg Larsson è divenuto parte della mia vita: il suo stile freddo e monocorde alla fine mi è divenuto familiare e non poteva essere altrimenti, avendomi tenuto compagnia (con le dovute pause) per ben sei mesi (tanto è trascorso dal momento in cui mi sono deciso a prendere in mano il famigerato Uomini che odiano le donne). Questo La regina dei castelli di carta comincia esattamente dove finiva il precedente La ragazza che giocava col fuoco, riprendendone la struttura da thriller spionistico: dopo aver affrontato l’ira e la vendetta del padre Alexander Zalachenko che l’ha addirittura sepolta viva dopo averle sparato in testa, Lisbeth Salander è soccorsa dalla polizia e ricoverata in ospedale in fin di vita. Qui viene però raggiunta dall’accusa di tentato omicidio da parte dello stesso Zalachenko, una spia russa che ha chiesto di essere protetto di Svezia, ma quest’ultimo viene ucciso da chi lo ha protetto in passato e non vuole che gli aspetti più sporchi della politica estera svedese vengano alla luce, ovvero la Sezione, ramo deviato e criminale della Säpo, i servizi segreti svedesi, che sperano inoltre, con l’aiuto del corrotto dottor Teleborian, di eliminare definitivamente la scomoda testimonianza della ragazza facendola rinchiudere in manicomio. Il giornalista Mikael Blomkvist, sempre pronto a dare una mano con un bell’articolo di denuncia, non abbandona l’amica al suo destino e, questa volta con l’aiuto della redazione di Millennium, di sua sorella avvocato che ha assunto la difesa di Lisbeth e di un poliziotto non corrotto (l’indomita Monica Figuerola, nel frattempo divenuta l’amante dello stesso Blomkvist), scopre la verità e prepara lo scoop del secolo, non senza qualche difficoltà. Come al solito lunghissimo e tutto teso a far venire alla luce un’altra immagine della Svezia, molto meno simpatica e progressista di quanto siamo abituati a pensare (anche da loro ci sono i servizi segreti deviati e la corruzione, così come una giustizia che spesso difende il più forte), questo terzo capitolo si rivela moderatamente appassionante e inficiato da una struttura ipertrofica che ne dilata i tempi all’inverosimile: moltiplica situazioni e personaggi (invero abbastanza credibili) e indugia nelle trame secondarie (come le avventure di Erika Berger allo Svenska Morgon Posten dove si trova a subire le molestie di uno stalker) fino a generare un senso di smarrimento che si risolve (fortunatamente) nel pirotecnico finale quando tutti i nodi psicoanalitici e i complotti vengono al pettine e si assiste a momenti narrativamente molto forti come il processo a Lisbeth (che si trasforma in una pubblica esecuzione di Teleborian, che entra come accusatore e che esce da accusato, con tanto di proiezione in aula del video dello stupro di Lisbeth da parte dell’infame tutore Bjurman, evento cardine del primo capitolo della trilogia) e il confronto finale tra Lisbeth e il fratello (quello che soffre di analgesia congenita, cioè non può provare dolore e quindi è di fatto invincibile), con la ragazza che ha la meglio grazie a un’inchiodatrice automatica che spara chiodi. Ovviamente, non bisogna commettere l’errore di pensare che Larsson si sia calmato: la maggior parte degli uomini odiano ancora le donne e la società sembra incapace di coltivare normali rapporti affettivi, essendo permeata da un grado di violenza intollerabile che, in alcuni frangenti, sembra giustificare una risposta della stessa natura (e per questo, alla fine, il bene costituzionale deve trionfare, con una bella assunzione di responsabilità da parte di Lisbeth, personaggio fondamentale e simbolico di tutta la vicenda). Dopo le statistiche sulla violenza sulle donne in Svezia e gli assiomi trigonometrici, questa volta le sezioni del romanzo sono introdotte da brani storici sulle donne guerriere della mitologia come le Amazzoni.

martedì 7 giugno 2011

Carolly Erickson - Anna Bolena

Pochi storici sanno essere incisivi come Carolly Erickson, il cui pregio maggiore sta nel riuscire a raccontare i protagonisti della storia e l’ambiente che li circondava in maniera agile e spigliata, ma allo stesso tempo completa e appassionante, senza annoiare mai: questa “Mistress Anne. The Exceptional Life of Anne Boleyn” è la seconda delle quattro biografie dedicate ai Tudor destinate al grande pubblico, tutte intitolate con i nomi con cui i protagonisti erano comunemente noti ai loro contemporanei. Questa è incentrata nello specifico su Anna Bolena, personaggio per certi versi enigmatico ma fondamentale in quanto all’origine dello scisma tra la Chiesa d’Inghilterra e quella romana: la sua è la storia tragica di una giovane donna orgogliosa e ambiziosa, usata da coloro che le stavano intorno, che finì con l’orgoglio spezzato (e la testa mozzata) per essere stata inghiottita nelle sabbie mobili della politica di corte. La sua scalata cominciò, sotto l’abile regia del padre (un ricco borghese da poco imparentato con la nobiltà, proprio in un periodo di cambiamento che vedeva gli antichi tioli conferiti a nuovi arrivati a corte), con un periodo trascorso in Francia, come damigella d’onore della principessa Maria d’Inghilterra, data in moglie all’anziano Luigi XII. Al suo rientro in Inghilterra, Anna si era trasformata in una splendida dama di corte, elegante, colta e sessualmente disinibita (la corte di Francia, retta dal libertino Francesco I, era famosa per questo, soprattutto da quando il sovrano aveva voluto replicare l’usanza dei nobili italiani di avere tutti un’amante). Finita nel seguito della regina Caterina, il padre la utilizzò per farle prendere il posto della sorella Maria, già amante di Enrico VIII, nel letto del re: contrariamente a Maria, però, Anna aveva un temperamento diverso e seppe legare a sé il sovrano con un sottile gioco di seduzione che lo lusingava e lo irritava al tempo stesso. In questo modo, i Bolena (tra i quali figurava anche lo zio Norfolk) riuscirono a opporsi in maniera sempre più determinante all’influenza del potente cardinale Wolsey, corrotto e mondano ma decisivo nel reggere le sorti del regno; da parte sua, Anna odiava Wolsey per l’intromissione del cardinale nel suo tentativo (fallito) di sposare un nobile della corte, ed ebbe quindi grande parte nella caduta in disgrazia del cardinale, soprattutto visto che il povero Wolsey non riuscì in alcun modo a dichiarare nullo il matrimonio del re con Caterina d’Aragona (ben due papi, Clemente VII e Paolo III, si arrogarono il diritto personale di decidere in merito). Inutile dire che Enrico, stufo di una moglie più vecchia di lui e incapace di generargli figli maschi per la linea di successione, cedette alla passione per Anna e per la vita spensierata che ella rappresentava, e per questo allontanò Caterina, dichiarò illegittima sua figlia naturale Maria, si fece riconoscere capo supremo della Chiesa inglese ed eliminò ogni tipo di obiezione alla sua autorità (fece giustiziare il suo amico Tommaso Moro e il vescovo Fisher, nonostante la vecchiaia e la recentissima nomina a cardinale). Anna divenne regina, ma non riuscì a dare a Enrico un figlio maschio (bensì solo una figlia femmina, Elisabetta, ed ebbe due aborti) e, soprattutto, si fece un sacco di nemici, trattando con disprezzo la figlia del re Maria ed esponendo la convinzione della necessità della morte di Caterina. In ballo, naturalmente, c’erano giochi politici più grandi di lei, a cominciare dal continuo gioco di alleanze con la Francia o con l’Impero di Carlo V, opzione quest’ultima maggiormente gradita al popolo inglese a causa dei traffici con le Provincie Unite (all’epoca sotto l’Impero): Caterina era zia dell’imperatore, Anna si era formata alla corte francese (ma anche Wolsey aveva sempre perseguito una politica filo-francese), ma tutto rischiava di andare in fumo dal momento che il papa aveva scomunicato Enrico e nessun sovrano poteva accettare questo matrimonio o di imparentarsi con la progenie illegittima della coppia. Come se non bastasse, Anna non fu mai amata dal popolo, anzi, fu all’origine di una sorta di millenarismo apocalittico che la indicava come fonte delle sciagure del Paese e di segni nefasti mandati dal cielo per ammonire il sovrano (di certo, poi, il fatto di avere sei dita su una mano non aiutava). Paradossalmente, la morte di Caterina provocò anche la fine di Anna: non essendo più viva la legittima consorte, infatti, niente impediva più al sovrano di cambiare nuovamente moglie, tanto più che al suo fianco era spuntata Jeanne Seymour, una dolce e serena creatura in grado di placare la sua inquietudine. A questo punto entrò in campo il cancelliere Cromwell (nemico di Anna e alleato addirittura di Norfolk), che ebbe gioco facile nell’imbastire un processo farsa per tradimento e infedeltà ai danni di Anna e della sua cerchia, così da riallacciare i rapporti con la Spagna, reintegrare Maria nella linea di successione e spodestare i Bolena dai ruoli più ambiti di corte. Senza mai dimenticare le fonti storiche, la Erickson tiene viva la narrazione con una serie di particolari di indubbio interesse: l’epidemia di febbre eruttiva (altrove chiamata febbre miliare o sudore anglico) che decimò il paese e che colpì anche Anna Bolena; l’utilizzo da parte delle donne del “fuoco di Sant’Elmo”, detto anche sublimato di mercurio, utilizzato per cancellare le righe ma capace di creare ributtanti conseguenze; la brutalità della lasciva corte francese dove tutto era permesso ma poi gli uomini avevano il diritto di pugnalare o avvelenare le mogli infedeli (anche solo in base a un sospetto), segno lampante di quanto il Rinascimento collegasse sfarzo opulento a scellerate efferatezze.