domenica 29 agosto 2010

Alexandre Dumas - Vent’anni dopo

Per me Dumas è una religione. Non esistono autori come lui, con la sua inventiva, il suo umorismo sottile e caustico, la sua capacità di infondere vita a personaggi storici, di divertire il lettore, prenderlo nel laccio nel laccio dei colpi di scena e di trascinarselo dietro a un ritmo infernale. Questo secondo romanzo del ciclo dei moschettieri è un ottimo esempio della sua arte, un’altra pietra miliare da parte di questo scrittore spesso negletto e considerato adatto a un pubblico infantile e fanciullesco. La vicenda si svolge tra il 1648 e il 1649, in uno scenario politico completamente diverso da quello che faceva da sfondo ai “Tre moschettieri”. Sono morti sia il cardinale Richelieu sia Luigi XIII, e la scena è ora dominata dalla figura del cardinale Mazzarino e dalla reggente Anna d’Austria. Genio politico e maestro dell’intrigo, avido e taccagno, continuatore della politica di Richelieu a favore della monarchia assoluta, odiato per le sue origini italiane, Mazzarino domina sin dalle prime pagine la scena e si trova ad affrontare la difficile opposizione della Fronda parlamentare, quel movimento promosso dalla nobiltà e dal Parlamento di Parigi che, sfruttando l’ipopolarità del cardinale e l’irritazione popolare per la pesante tassazione e la crisi economica, mira a ristabilire vecchie prerogative minate dalla politica di rafforzamento del potere centrale. Quanto ai nostri eroi (d’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis), le loro strade si sono separate: solo d’Artagnan continua a prestare servizio come moschettiere agli ordini della corona, o meglio, continua a vivacchiare con la carica di luogotenente, convinto che i suoi servigi non siano stati ricompensati come avrebbero dovuto. È alloggiato in rue Tiquetonne, all’albergo della capriola, dove intrattiene una relazione con una bella locandiera fiamminga. Athos è stato il primo ad abbandonarlo, ritirandosi nella sua terra dove, con il nome di conte de la Fère, trascorre una tranquilla esistenza da ricco gentiluomo  di campagna e si dedica all’educazione del figlio Raoul (frutto di un casuale incontro d’amore fra Athos e la disinvolta e intrigante duchessa di Chevreuse, in fuga e travestita da cavaliere). Porthos, sposatosi e rimasto vedovo, si è arricchito e vive, con il pomposo nome di Porthos du Vallon de Bracieux de Pierrefonds, in un bel castello del principio del regno di Enrico IV, con il cruccio però di non appartenere alla nobiltà storica e l’aspirazione di essere  fatto barone. Aramis, infine, ha preso gli ordini e il nome di abate d’Herblay, ma non ha perso il gusto per l’intrigo né quello per la galanteria. In missione per conto di Mazzarino, d’Artagnan cerca di ricostituire il quartetto di un tempo, ma si scontra con la più dura delle realtà: la divisione politica. A seguirlo, infatti, c’è solo Porthos, motivato dalla speranza di guadagnarsi il titolo di barone, mentre Athos e Aramis, dopo le prime schermaglie, non fanno mistero di appoggiare la Fronda. È la rivoluzione inglese, guidata da Cromwell, a riunire ancora una volta i quattro amici, che si ritrovano in Inghilterra per motivi diversi: mentre d’Artagnan, in compagnia di Porthos, raggiunge l’isola per portare una missiva di Mazzarino a Cromwell, Athos e Aramis si recano oltremanica per incarico di Enrichetta Maria di Francia, sfortunata figlia di Enrico IV e di Maria de Medici e moglie del re Carlo I d’Inghilterra. In esilio dalla sua patria d’origine, malvista dal sempre guardingo e calcolatore Mazzarino, che l’ha abbandonata indigente in un convento, ella ha ricevuto dal marito un disperato messaggio d’aiuto e si è rivelata ai due moschettieri per cercare di organizzare il disperato salvataggio del sovrano inglese. La missione dei quattro sono però intralciate in ogni modo da Mordaunt, figlio della perfida Milady conosciuta nei “Tre Moschettieri” e ben deciso a vendicare la madre. Egli, inglese, parteggia per i fanatici puritani di Cromwell e fa sventare il tentativo di salvataggio del re, prestandosi personalmente a svolgere le mansioni di suo boia: quindi, il desiderio di vendetta lo spinge a minare la nave che riporta in patria i protagonisti, i quali si accorgono però del tranello poco prima dell’esplosione e a riescono a porsi in salvo su una barca. Mordaunt è raccolto semimorente, ma il suo odio è così forte che cerca di trascinare sott’acqua Athos, il quale, abbandonato ogni scrupolo e vinta ogni esitazione, lo uccide. Sbarcati finalmente in Francia, i quattro amici sono costretti ad affrontare l’ira di Mazzarino, ma si impadroniscono del cardinale e lo costringono a sottoscrivere il trattato che pone fine alla Fronda, ottemperando inoltre alle loro richieste personali. Una volta che la Francia è pacificata e la famiglia reale rientra a Parigi, gli amici si separano di nuovo: Athos torna a fare il gentiluomo di campagna, Aramis accetta un invito della sua amante, la duchessa di Longueville (al cui figlio ha garantito come padrino di battesimo nientemeno che il re), a trascorrere qualche tempo in Normandia, Porthos si gode la tanto agognata e finalmente ottenuta baronia, d’Artagnan si prepara a partire per l’imminente guerra nelle Fiandre. Tutta la vicenda (che nelle ultime pagine vede anche la morte del conte di Rochefort e del vecchio sarto Bonaciuex, ammazzati rispettivamente e in diversi contesti da d’Artagnan e Porthos), è dominata dunque dal contrasto tra il Parlamento di Parigi e la monarchia assoluta, tra la Fronda e la Corte, che per il borghese Dumas corrisponde allo scontro secolare tra borghesia e aristocrazia (non è un caso che il prode Planchet, ex servo di d’Artagnan e ora messosi in proprio, figuri tra i commercianti insorti contro Mazzarino). Che il romanzo si chiuda con i rallegramenti del giovane Luigi XIV e l’invito a pranzo di d’Artagnan è un dettaglio che la dice lunghissima. Nei quattro amici moschettieri c’è tutta la società francese: Athos simboleggia l’antica nobiltà, Porthos incarna la nobiltà più recente, d’Artagnan la borghesia nobilitata e Aramis il clero. In questo senso si coglie l’esempio del nobile Athos, che in una delle scene più suggestive del romanzo porta il figlio Raoul a visitare i sepolcri dei re francesi a Saint-Denis e in quel luogo sacrale gli tiene una lezione di teoria monarchica dell’Ancient Régime. Lo stesso atteggiamento, che si ripete nell’atteggiamento tenuto dai moschettieri nei confronti di Carlo I Staurt (presentato come una figura dolente e piena di dignità regale), non ha, come ho letto da qualche parte, la mera funzione di ricreare, attraverso l’identificazione di credenze e convinzioni dell’epoca, un’atmosfera storicamente attendibile: piuttosto, è l’aspirazione a una nobiltà dello spirito, all’appartenenza a una dimensione mitica ed eroica che un autore come Pérez-Reverte sembra aver compreso benissimo mettendo in bocca al Capitano Alatriste lo stesso elogio della monarchia ne “La presa di Breda”. I personaggi di Dumas sono scolpiti nella leggenda, la loro parola equivale alla loro azione, il loro ideale non conosce compromesso: forse questa volta sono più riflessivi e smaliziati, percorsi spesso da una vena di melanconia per il tempo passato e le delusioni della vita, ma mantengono tutta la loro dignità (e sopra di loro, come gigante, titaneggia Mazzarino). Da antologia il racconto della detenzione e della fuga del duca di Beaufort, così come il drammatico incontro dei quattro moschettieri, separati da rivalità politica, in Place Royale (l’odierna Place des Vosges). È ora di finirla con i pregiudizi: Dumas è lì che ci aspetta e “Vent’anni dopo” è una delle sue prove più alte e scintillanti.

Benedetta Craveri - Maria Antonietta e lo scandalo della collana

Davvero formidabile questo libretto dalla scarsa foliazione e dal piccolo formato che analizza con piglio critico (ma molto brio) la storia dello scandalo e del processo più celebre della Francia dell’Ancient Régime, collocato a metà degli anni Ottanta del Settecento e passato alla storia come “affaire du collier”. La regina venne pubblicamente accusata di avere in un primo tempo accettato l’acquisto di una costosa collana per il tramite del cardinale di Rohan e di aver poi negato il fatto, incolpando il cardinale, una volta che la notizia era divenuta pubblica; la regina apparve così una dilapidatrice delle casse dello Stato e una mentitrice. Ovviamente, si trattò di una grandissima truffa ordita dalla fervida mente di un’avventuriera senza scrupoli, la contessa Jeanne de la Motte, presunta discendente dei Valois e disposta a tutto pur di recuperare un titolo che le apparteneva, a sua detta, di diritto: fu lei, dopo molteplici tentativi di farsi restituire i possessi ereditari presso la corte (con tanto di finto svenimento alla presenza della regia), a irretire il cardinale di Rohan, mondano primate di Francia dal tenore di vita piuttosto sostenuto intenzionato a fare qualsiasi cosa per diventare ministro e recuperare il favore di Maria Antonietta, sua nemica sin da quando egli era ambasciatore a Vienna (uomo di mondo molto scaltro, aveva messo in cattiva luce l’imperatrice Maria Teresa agli occhi della favorita di Luigi XV, Madame Du Barry). Protettore di Cagliostro, che lo iniziò alla scienza alchemica, ai misteri egizi e alla ricerca della pietra filosofale, fu talmente sciocco e superficiale da credere che Jeanne de la Motte fosse una confidente intima della regina, da non accorgersi di un carteggio falsificato e da accettare un finto incontro con una sosia della regina di notte nel boschetto di Versailles. Benedetta Craveri analizza la vicenda attraverso le varie fasi (l’arresto, la truffa, il processo e la sentenza) e i suoi protagonisti (la regina Maria Antonietta, il cardinale di Rohan, la contessa de La Motte), giungendo a dimostrare come sarebbe bastato far requisire i diamanti in Inghilterra, richiudere coloro che avevano ordito la truffa ed esiliare il cardinale nella più modesta delle sue abbazie, per risolvere la cosa senza troppe conseguenze; invece il re, per difendere l’onore della regina e darle soddisfazione nel punire un uomo che ella detestava, fece rinchiudere Rohan alla Bastiglia e istruire un processo investendo del caso il Parlamento. Ovviamente, questo arresto fu visto dalle classi privilegiate (aristocrazia e clero) come uno scandaloso esempio di abuso di autorità da parte della corona, e questo portò alla sorprendente sentenza di assoluzione. Errori di giudizio e di intelligenza politica che contribuirono a trasformare un banale caso di truffa in uno scandalo senza precedenti, destinato a trascinare nel fango la reputazione della regina e, con essa, il prestigio della corona. Il processo (all’epoca a porte chiuse) si rivelò uno spettacolo esilarante durante il quale la contessa de la Motte diede fondo a tutte le sue risorse di attrice e profittatrice, mentre Cagliostro si presentò vestito di taffettà verde a ricami d’oro, con innumerevoli treccine che gli cadevano sulle spalle, definendo sé stesso un nobile viaggiatore capace di risalire il corso dei tempi e divenire qualunque persona volesse essere, tanto che alla fine della sua esibizione i giudici si trattennero a stento dall’applaudirlo. Particolari che non sfuggirono ai giornali del tempo, che seguivano appassionatamente la vicenda e che per la prima volta ebbero una tale diffusione da attirare abbonati in tutta Europa, soprattutto grazie alle testimonianze degli avvocati, legati al mondo parlamentare e in seguito impegnati a favore della Rivoluzione. Una campagna mediatica su larga scala realizzata anche attraverso i canali della stampa clandestina e il linguaggio egualitario della pornografia, priva di qualsiasi scrupolo nel gettare fango su persone e istituzioni; oltre che, naturalmente, il finanziamento di gruppi di potere schierati contro l’assolutismo regio. Su tutta la vicenda permangono ancor oggi fosche nubi, soprattutto a proposito delle strategie utilizzate dalla corona e del grado di coinvolgimento di Maria Antonietta (sembra che l’incontro tra il cardinale e la finta regina nel boschetto sia avvenuto con la complicità della vera regina, intenzionata a mettere in ridicolo Rohan), tanto più che Jeanne de la Motte in carcere venne trattata come un personaggio di alto rango e ricevette la visita della contessa di Polignac, amica intima della regina, prima di potersene fuggire indisturbata dopo un solo anno di detenzione.

giovedì 26 agosto 2010

Madame Campan - La vita segreta di Maria Antonietta

Cosa meglio della mia recente visita alla reggia di Versailles poteva spingere a dedicarmi a letture sull’argomento in grado di farmi rivivere l’atmosfera di un luogo così affascinante e di soddisfare le mai sopite passioni legate all’Ancient Régime? Ottime per lo scopo si sono rivelate queste “Mémoires de Madame Campan”, scritte dalla prima cameriera della Regina di Francia Maria Antonietta già lettrice per le figlie di Luigi XV, pubblicate con indubbio merito (ma con molti refusi in ogni pagina) da Newton Compton con l’orrido e indiscreto “La vita segreta di Maria Antonietta”, titolo che riflette chiaramente la volontà di trovare un titolo accattivante in grado di far presa da subito su un pubblico poco competente (inoltre, bisognerebbe chiedersi fino a che punto è possibile parlare di “vita privata”, dal momento che la vita dei sovrani a Versailles era tutto fuorché privata, codificata da rigorosi cerimoniali pubblici ed esposta a numerosissime persone, anche del popolo, ma tant’è…). L’opera è una cronaca leggera e spesso ironica di un mondo incredibile e irripetibile, quasi incurante della piega che stavano prendendo gli eventi (piuttosto emblematico il caso di un nobile che per la rabbia spezza una stecca da biliardo d’avorio fatta con un solo dente di elefante e dall’impugnatura d’oro), ma è anche un tentativo di difesa della regina che Madame Campan aveva servito e amato. Ne emerge il ritratto di una donna, Maria Antonietta, buona e generosa, riservata e fragile, i cui difetti, gli sperperi e le ingenti somme elargite a nobili e nobilastri senza scrupoli sono imputati a questa sua gentilezza d’animo e alla sua volontà di circondarsi di persone allegre e capaci di farla ridere e sopravvivere alla prigione dorata nella quale era finita suo malgrado. Usata come pedina di scambio per l’alleanza austro-francese, ma sin da subito vista come un corpo estraneo alla corte per la caduta in disgrazia del partito sostenitore di quest’alleanza, Maria Antonietta fu così soggetta a illazioni e calunnie di ogni tipo in ottica antiaustriaca o direttamente antimonarchica (Parigi subiva l’influenza del duca d’Orléans, cugino del re e nemmeno troppo segretamente mirante al trono (si deve infatti a lui il voto che condannò Luigi XVI alla decapitazione). Piuttosto, la regina si dimostrò sempre insofferente all’etichetta assurda e soffocante di Versailles, cercando di sbarazzarsi o di semplificarla (incoraggiata in questo dall’abate di Vermond): valga per tutti l’esempio della cerimonia di vestizione, capace di irritarla quotidianamente fino al punto di farle decidere per l’abolizione e per questo motivo di grande riprovazione da parte dei nobili che vedevano in questo comportamento un aperto disprezzo per i diritti della gerarchia. Un capitolo è dedicato a uno dei più famosi scandali che travolsero Maria Antonietta, quello della collana, che alimentò la sua fama di dissipatrice e di donna vanitosa oltre ogni immaginazione e la consegnò in pasto alla pubblica opinione: una truffatrice senza scrupoli, un cardinale vanitoso e falsari compiacenti trascinarono la regina in una truffa milionaria che aveva al centro un collier di diamanti che lei stessa aveva rifiutato più volte. Non si può sperare che la povera Madame Campan condividesse la Rivoluzione e men che meno gli eccessi del Terrore (cui incredibilmente sopravvisse); anzi, dalle sue memorie traspare una totale devozione per la famiglia reale e una decisa avversione per le nuove idee (prova ne è l’ostilità per Beaumarchais e i principi evocati dal suo Figaro), specie se si considerano scene alle quali l’autrice fu costretta ad assistere, come quella del trasferimento della famiglia reale da Versailles a Parigi quando la folla che recava le teste dei due guardie del corpo massacrate ebbe «l’atroce idea di voler costringere un parrucchiere di Sèvres a pettinare le due teste e a incipriare i capelli insanguinati». Non mancano delle riflessioni personali sulla Rivoluzione, imputabile a suo giudizio ai principi della moderna filosofia, l’entusiasmo per la libertà sul modello della Rivoluzione Americana, la debolezza di un monarca inadatto a fronteggiare un movimento di popolo di simile portata, la costante corruzione dell’oro inglese (figuriamoci se francesi e inglesi non si accusano vicendevolmente di qualunque malefatta) e i progetti di vendetta e di ambizione del duca di Orléans. A complemento dell’opera, un’interessante serie di ricordi, ritratti e aneddoti legati ai regni di Luigi XIV, XV e XVI, al delfino Luigi Ferdinando, alle figlie di Luigi XV e alla regina Maria Leczinska.

lunedì 2 agosto 2010

Arthur Schnitzler - Il ritorno di Casanova

Giunto ormai alla (forse per l’epoca) veneranda età di 53 anni, squattrinato avventuriero abituato a vivere di espedienti e a tentare la fortuna al gioco, Giacomo Casanova è stanco di peregrinare e spera di rientrare finalmente nella sua natia Venezia, abbandonata tanti anni prima con la rocambolesca fuga dai Piombi. Proprio sulla strada del ritorno, in attesa di notizie dal Consiglio dei Dieci a favore della sua causa, nei pressi di Mantova viene ospitato dalla famiglia di una sua ex amante, della quale aveva favorito il matrimonio godendo per giunta anche delle grazie della madre (mentre il marito, Olivo, lo ritiene un benefattore). Nella casa l’attempato ma ancora affascinante avventuriero si invaghisce di una giovane studentessa, Marcolina, non ancora ventenne ma già colta illuminista dedita alla matematica, e mette in atto ogni possibile espediente per farla sua, con risultati agghiaccianti. La ragazza infatti lo trova ripugnante e noioso e lo umilia costantemente smascherando la sua boria filosofica di nemico di Voltaire (contro cui sta scrivendo un pamphlet critico) e di narratore inesauribile di storie per lo più inventate. Un’attrazione che parte da una fantasia capricciosa (Casanova desidera Marcolina ancor prima di averla vista, solo per averne sentito parlare) diventa dunque, per effetto di questo rifiuto manifesto, una sfida senza quartiere contro la realtà della vecchiaia e della decadenza (e quindi della solitudine), un obiettivo da perseguire attraverso ogni mezzo, anche le minacce, il ricatto e, alla fine, l’inganno (Casanova si finge l’innamorato della giovane, l’ufficiale Lorenzi, grazie all’ausilio delle tenebre). Intanto, le autorità della Serenissima gli concedono il ritorno in patria (economicamente foraggiato) in cambio della richiesta di mettersi al loro servizio per individuare i giovani sovversivi che minacciano la sicurezza delle istituzioni. Casanova, che sognava un ritorno tranquillo e in pompa magna, ha un moto di disgusto, giungendo a odiare anche il suo vecchio padrino Bragadin, ma alla fine accetta. Il cinico seduttore non è comunque l’unico personaggio negativo della vicenda, anzi, la sua presenza smaschera l’ipocrisia di un’intera società: la famiglia che lo ospita non è tanto meglio, a partire dai due coniugi dei quali si è già accennato, per proseguire con l’abate che li frequenta e regala alle figlie carezze lubriche, con una coppia di marchesi ospiti di cui la moglie tradisce il marito con Lorenzi e lo mantiene, e addirittura con l’intraprendenza di una delle due figlie suscita in Casanova una tentazione di pedofilia. Il duello all’alba tra Casanova e Lorenzi ignudi è un confronto che rivela l’attenzione di Schnitzler per il tema del Doppio (l’altro suo romanzo famoso, “Doppio sogno”, è stato utilizzato da Stanley Kubrick per il film “Eyes Wide Shut”), tanto che alla fine Casanova bacia sulla fronte il giovane morto riconoscendo un altro se stesso da giovane, lo specchio della sua esistenza, invidiando la sua sorte. Da questo punto in poi Casanova è come morto, nel suo funereo ritorno in una lugubre Venezia, ma paradossalmente questo distrugge in un sol colpo il suo cinismo nei confronti della vita e dell’amore, e finalmente gli regala il riposo, senza che gli incubi lo assillino. Un romanzo amaro, crepuscolare, macabro e cupissimo, che, alla luce del classico binomio amore/morte, rispetta e mescola memorie e accadimenti reali della vita di Casanova in una sorta di monologo interiore in terza persona. Veramente degno di stima.

Elmore Leonard - Road Dogs

Famoso per l’ormai corposa lista di film tratti dai suoi romanzi per mezzo di registi del calibro di Quentin Tarantino e Steven Soderbergh (giusto per citare i più importanti), l’ultra ottuagenario Elmore Leonard (classe 1925) continua a sfornare libri a raffica con l’inventiva e la verve di un trentenne. Non fa sconti questo “Road Dogs” (titolo che si riferisce a un’espressione del gergo carcerario usata per indicare due detenuti che, dietro le sbarre, si proteggono a vicenda), recentemente uscito per Einaudi (che sta perseguendo il progetto di proporre o anche riproporre tutta l’opera dello scrittore americano) e incentrato sull’amicizia di due criminali che si incontrano in prigione e stringono amicizia: il bandito gentiluomo e rubacuori Jack Foley protagonista di “Out Of Sight” (“Fuori dal gioco” per Baldini Castoldi) e interpretato da George Clooney nell’omonima trasposizione cinematografica, e lo stallone cubano Cundo Rey, presente nel romanzo “La Brava” (“Dissolvenza in nero” per Sperling & Kupfer) e sopravvissuto a tre colpi di pistola al petto. Cundo non esita a pagare profumatamente un legale per ricorrere a cavilli legali e fargli ridurre la pena del suo amico da trent’anni a trenta mesi, con il meraviglioso progetto di ospitarlo a casa sua e fargli fare quello che sa fare meglio: rapinare altre banche. In attesa di uscire di prigione anche lui, dunque, lo spedisce a Venice, in California, dove vive la moglie Dawn Navarro, avvenente medium specializzata in truffe soprannaturali, anch’essa presa da un altro romanzo di Leonard, “Riding the Rap” (“A caro prezzo” per Baldini Castoldi): nonostante il geloso e possessivo Cundo le telefoni tutti i giorni per chiederle se viva casta come una santa nell’attesa del suo ritorno, la donna vive in una casa piena zeppa di sue foto e quadri che la ritraggono come mamma l’ha fatta, ha una passione sfrenata per gli uomini che la portano a concedersi a tutti i rappresentanti del sesso forte che la circondano e, cosa più importante, è fermamente intenzionata a mettere le mani sul patrimonio del marito. «Puoi chiamarmi reverendo Dawn, se ti fa piacere. Sono un regolare ministro del culto presso la Spiritualist Assembly di Waco, Texas, anche se ho iniziato come manicure»: così si presenta questa femme fatale da genere noir (ma molto particolare) a Jack Foley prima di finirci a letto e di trasformarlo in un sensitivo nonché cacciatore professionista di fantasmi, per truffare una ricca e credulona attrice perseguitata dallo spirito del marito morto. Da una parte lo scaltro Jack è controllato a vista dagli scalcinati scagnozzi di Cundo (un cubano dall’identità sessuale alquanto ambigua, un bullo costaricense e un naziskin tatuato), dall’altra dall’agente dell’Fbi Lou Adams, il quale non solo è pronto a tutto pur di rimandarlo in galera (è convinto della necessità assoluta che il mondo si ricordi non solo dei banditi, ma anche dei buoni che li prendono), ma addirittura sta scrivendo un libro di oltre 500 pagine su di lui e del quale gli manca solo il finale. Il fatto che i tre protagonisti derivino da altrettanti precedenti romanzi non implica affatto la necessità di aver letto prima gli altri: la trama (fondata sul principio ”chiunque cerca di fregare chiunque”) è perfettamente autosufficiente, i personaggi sono delineati in maniera fantastica, lo stile è di quelli che ti tengono inchiodato alla pagina e, a completare il tutto, i dialoghi sono da antologia e sembrano quelli di un film di Tarantino (da sempre fan di Leonard per sua stessa ammissione). La scena di Little Jimmy che va a confessarsi prima della cena decisiva e dichiara bastano dieci Padre Nostro e dieci Ave Maria per farsi perdonare da Dio tutte le incazzature che gli ha fatto prendere è veramente memorabile per tempi comici e narrativi. Ovviamente, però, dietro a tanti sorrisi c’è anche la violenza, perché questo è pur sempre un libro di gangster, e soprattutto di ganster balordi, molto a mal partito nel saper mantenere calma e autocontrollo, spesso incapaci nel fare il loro stesso mestiere (si veda il confronto finale sul tetto tra Foley e Tico). I personaggi di Leonard vivono nel sottobosco della delinquenza, cercano di fare la cresta su tutto, sono spacconi e fanfaroni, ingenui e arroganti, e l’autore ha gioco facile nel giocare sullo stereotipo del macho latino che va su tutte le furie per un nonnulla e non si accorge di come la sua donna lo stia fregando.




Recensione pubblicata sul numero di ottobre 2010 della rivista “Pianuraoggi”