mercoledì 31 marzo 2010

Nick Hornby - Tutta un’altra musica

Volente o nolente, Nick Hornby torna sempre alla musica. Lo fa di continuo, e fa bene. Questa volta racconta una storia di coppia di quasi quarantenni di una cittadina inglese senza arte né parte (Gooleness) che trascinano una relazione stanca, senza comunicazione: Annie, ex insegnante ora dedita a organizzare una mostra sugli squali nel museo cittadino, e Duncan, che lavora all’università ma coltiva un’insana ossessione, la passione per un cantante sparito dalla scienza senza nessuna spiegazione da vent’anni, Tucker Crowe (descritto come un incrocio tra Leonard Cohen, Dylan e Bruce Springsteen): immaturo e infantile come molti personaggi maschili di Hornby, Duncan passa il suo tempo libero a dissertare via internet con altre poche decine di oltranzisti (i “crowelogisti”) sul loro cantante preferito, facendone una figura mitica e inserendo eventi e avvenimenti della sua vita inesistenti, raccolgono informazioni confuse (dalle stesse parole delle canzoni) e costruisconio quello che loro vogliono credere sia Tucker Crowe (amori mai vissuti, figli mai nati e una faccia che non è la sua, bensì quella del vicino di casa). Annie, almeno in apparenza, accetta passivamente questo “primo amore” del compagno e impara ad apprezzare a modo suo le canzoni del cantante americano, ma è costretta ad affrontarne gli aspetti più bizzarri, a partire da un viaggio in uno sperduto paesino del Montana per visitare i gabinetti di un locale in cui Tucker Crowe è stato prima di decidere di abbandonare le scene per sempre. La vita di coppia di Duncan e Annie è destinata però a cambiare radicalmente all’arrivo di un demo/versione acustica del più famoso album di Tucker Crowe, “Juliet”, intitolato “Juliet, Naked” (titolo originale anche del romanzo, misteriosamente tradotto “Tutta un’altra musica” dopo lo scempio perpetrato con “Slam”, tradotto “Tutto per una ragazza”). Convinta dello scarso valore di un prodotto embrionale e non paragonabile con una versione definitiva, Annie insiste per pubblicare sul sito curato da Duncan (dedicato al cantante) la sua recensione, del tutto diversa da quella entusiastica di lui, accecato dalla voglia di dimostrare che solo lui è in grado di comprenderne la grandezza (tra l’altro Duncan impazzisce di possessione e gelosia perché lei lo ha ascoltato per prima e la accusa di avergli fatto volontariamente del male). La recensione di Annie è talmente vera da attirare l’interesse del vero Tucker Crowe, che in America legge da tempo le riflessioni della manica di fanatici sulla sua vita e sulla valenza artistica della sua musica: risponde ad Annie e vuole conoscerla, in concomitanza con il tradimento di Duncan che decide di mettersi insieme a una collega dell’università docente del Corso avanzato di arti drammatiche (una specie di contraltare sentimentale al suo fanatismo musicale). Ben presto scopriamo che Crowe, a dispetto del suo statuto di rockstar maledetta, è ora un tranquillo pensionato dalle svariate mogli e con cinque figli di cui sa poco o nulla e con i quali ha seri problemi di relazione. Risponde ad Annie e vuole conoscerla, ma il momento del loro incontro coincide con il ricovero di Crowe per infarto mentre sta andando a trovare la figlia (che ha subito un aborto spontaneo). Un libro che è anche una riflessione sul desiderio di recuperare il tempo perduto e sul non voler vivere nel rimpianto, sulla necessità di fare i conti con la propria vita nella sensazione di aver perso la giovinezza inseguendo proiezioni, sulle illusioni e le aspettative con cui ci si costruisce miti fasulli e irreali (l’altro non è mai quello che noi vorremmo che sia, sia esso un cantante o il compagno di vita): è abbastanza significativo che la Juliet del titolo, ex fiamma attorno a cui gira tutta la vita di Tucker Crowe per i fanatici che lo seguono, è in realtà l’unica donna con cui lui non è andato a letto. Hornby lo fa con lo  stesso garbo, l’ironia e lo stile che lo ha da sempre contraddistinto a partire da “Alta fedeltà”: chi ama la musica sa quanto possa essere vera una scena come quella di Duncan che piange ascoltando il nuovo disco con l’iPod mentre un passante lo guarda come se fosse un pervertito, o le pagine in cui viene descritto il mondo di internet, paradiso di sballati e teorici del complotto che si prendono dannatamente sul serio e sono disposti ad acclamare come capolavoro il più disgustoso b-side di un singolo per il mercato giapponese (da non perdere le ultime pagine in cui viene ricreata una favolosa discussione su un forum web). Tra l’altro, in alcuni punti (a partire dalla passione di Tucker Crowe per Charles Dickens) è possibile rintracciare echi delle recensioni scritte dallo stesso Hornby sul Believer e raccolte nei recenti “Una vita da lettore” e “Shakespeare scriveva per soldi”, segnale, questo, che ciò che leggiamo ci condiziona pesantemente.




Recensione pubblicata sul numero di maggio 2010 della rivista “Pianuraoggi”

sabato 13 marzo 2010

Neil Gaiman - I ragazzi di Anansi

Sorta di spin-off dell’acclamato American Gods dello stesso Gaiman, questo romanzo (definito dal suo autore “magical-horror-thriller-ghost-romantic-comedy-family-epic”) riprende la figura di Anansi, divinità africana beffarda e dissacratrice, ma è molto diverso dal suo predecessore: non ne ripete l’ambiziosa struttura ciclopica e ne riduce drasticamente la simbologia mitologica, e anzi eleva all’ennesima potenza tutti quegli elementi ironici, sarcastici e deliranti che a mio avviso rivestivano l’aspetto migliore dell’opera. Protagonista di questa rutilante commedia dark è Ciccio Charlie Nancy, grigio e noioso impiegatuccio di Londra, insicuro e patologicamente impacciato: ha un lavoro che non gli piace, anche a causa di un capo irritante e subdolo, e una fidanzata (Rosie) che vorrebbe sposare nonostante l’avversione della futura suocera. Inoltre, non riesce a scuotersi di dosso il maledetto nomignolo che gli ha dato il padre, morto stecchito durante una farneticante session di karaoke dall’altra parte dell’oceano piombando con il microfono tra le tette di una biondona in ascolto, e tutti i ricordi imbarazzanti legati a quello che il padre gli ha fatto provare durante l’infanzia. Ben presto a Ciccio Charlie viene a sapere che il suo padre cazzaro, Mr. Nancy, era il dio-ragno Anansi, colui che rubò le storie a Tigre e che ha permesso agli uomini di gustare la delizia della narrazione alterando sempre più la loro selvaggia natura animale; inoltre scopre di avere un fratello, Ragno, che lui non ha mai conosciuto e del quale non sospettava nemmeno l’esistenza. Costui è l’esatto opposto di Ciccio Charlie, e anzi gli insegna il modo per lasciarsi un po’ andare e divertirsi, perdendo ogni condizionamento, proprio come faceva il loro defunto padre: il problema è che Ragno si stabilisce a casa sua e inizia sistematicamente a mandargli in pezzi la vita, facendogli perdere il lavoro e rubandogli la fidanzata. A questo punto ecco il colpo di genio: stringere un patto con un altro dio, uno che odia profondamente Anansi e la sua famiglia e che sarebbe meglio non disturbare. La vicenda deraglia (sempre in maniera estremamente godibile) tra sedute spiritiche tenute da comari del vicinato, uccelli che uccidono in stile Hitchcock, una fantasma che gliene dice quattro al marito precedentemente morto e torna a vendicarsi del suo uccisore, un esito inaspettato nell’isola caraibica St. Andrews e un lime dai poteri insospettati. Il romanzo insiste sul tema del doppio (Ciccio Charlie e il fratello Ragno, il dio Tigre e Grahame Coats) e stabilisce interessanti e poetici collegamenti semantici («Le storie sono come ragni, con lunghe zampe, e sono come le ragnatele in cui l’uomo finisce aggrovigliato, ma che se le guardi sotto una foglia, nella rugiada del mattino, sembrano tanto belle con quel modo di collegarsi una all’altra strette strette»), ma ha il pregio di non prendersi mai sul serio, stupendo con citazioni beffarde («Ah, bene. Domani è…» «Se dici “un altro giorno” mi irriterai e ci saranno gravi conseguenze») e squarci di folle, eccentrico e surreale humor inglese (le storielle di Anansi che gabba Tigre raccontandogli di aver ottenuto le bottiglie di whisky e un sacchettone di pezzi d’oro portando a un negoziante la nonna morta su un carretto, o Anansi alla prese con l’uomo di pece). Insomma, a fronte di un minor spessore culturale (ragione per la quale il libro è stato accolto con maggior tiepidezza dai fan dello scrittore), l’opera ci guadagna in compattezza e uniformità di stile, risultando veramente convincente dall’inizio alla fine.

sabato 6 marzo 2010

T.T. Sutherland (con Linda Woolverton) - Alice in Wonderland

La Disney ha fatto le cose in grande e, in occasione dell’uscita di uno dei film più attesi dell’anno, fa uscire questo adattamento a firma di T.T. Sutherland a partire dalla sceneggiatura di Linda Woolverton e (ciò che più conta) dalla direzione di Tim Burton. Che il famoso regista dovesse prima o poi incontrare la famosissima opera di Lewis Carroll era lampante, ma ciò che più stupisce (chi almeno non ha ancora visto il film) è la decisione di aver creato un vero e proprio seguito alla vicenda: questo libro permette di concentrarsi sulla trama e di riflettere sulle logiche, i meccanismi e i valori che hanno mosso Burton senza lasciarsi distrarre dagli altri fattori che concorrono a comporre il film. Alice ora ha diciannove anni ed è molto meno spensierata della bambina della storia originale, tanto da pensare che il Paese delle Meraviglie sia solo un sogno ricorrente che l’ha perseguitata sin da quando era piccola. La cornice vittoriana che fa da contorno alla vicenda ricalca molto da vicino quanto già visto ne “La sposa cadavere” dello stesso Burton: un mondo grigio, triste e  dominato dalla logica del denaro, tanto che Alice è costretta a sposarsi con un inetto per salvare sé stessa, la madre e la sorella da un’incombente rovina economica. Davanti alla richiesta di matrimonio che l’amato pretendente le pone durante una festa, lei ha un sussulto di indipendenza e fugge inseguendo il famoso Bianconiglio che si infila in una buca poco distante sbucando nel Mondo delle Meraviglie. Ecco la prima scoperta: quest’ultimo è stato trasformato in un universo gotico cupo e opprimente, dominato dalla Regina Rossa dalla testa enorme, Iracebeth, che governa il paese con il terrore. Il suo prezioso alleato è il Fante di Cuori (che in Carroll è solo un povero sottoposto accusato ingiustamente di aver rubato delle torte), un crudele e meschino condottiero che finge di amare la sua padrona ma in realtà la odia e non esita a tradirla quando si presente l’occasione. Temuta e odiata da tutti, Irachebeth è terribilmente gelosa della sorella, la Regina Bianca, Mirana, che invece, di contro, è una dolce fatina buona. Catapultata in questo incubo a occhi aperti, Alice si ritrova anche al centro di una profezia che la vuole eroina portatrice di una leggendaria spada e debellatrice del terrificante mostro Ciciarampa: Burton non ha fatto altro che prendere il poemetto epico del Jabberwocky di “Alice attraverso lo specchio” di Carroll, sviscerarlo (anche nei termini inventati) e utilizzarlo a fini narrativi: il Jubberwocky (qui tradotto appunto “Ciciarampa”, ma altrove anche “Ciarlestone” per l’intraducibilità stessa della lingua di Carroll) è un drago agli ordini della Regina Rossa, simbolo del suo potere e della sua tirannia. I personaggi sono gli stessi (lo Stregatto, i fiori parlanti, Pinco Panco e Panco Pinco, il Brucaliffo), continuano a esprimersi con indovinelli e filastrocche cantate in rima, ma qualche cambiamento c’è: il Cappellaio Matto è rimasto allo stesso tavolo da tè in compagnia delle Lepre Marzolina e del ghiro Mallymkun, continuando a cantare canzoni sciocche e inconcludenti che in realtà sono inni della ribellione clandestina contro la crudele sovrana. Cambiando statura con la consueta dose di dolcetti e boccette, inizialmente Alice non accetta il suo destino, non sa nemmeno se è l’Alice giusta ed è sottoposta a continui esami dagli strani personaggi che le si parano davanti, ma progressivamente comincia a recuperare la sua capacità di vedere e vivere l’impossibile, confrontandosi con un mondo dove la follia non deve sorprendere (fondamentali, a questo proposito i modelli del padre di Alice e del Cappellaio Matto, il primo con i suoi insegnamenti, il secondo con la sua irrazionalità elevata a unica regola di vita): ripetendosi continuamente e credendo davvero che l’impossibile è possibile, Alice cresce ed è capace di accettare le responsabilità che la vita adulta sta per farle incontrare. Ecco quindi che le sue disavventure sono diverse da una semplice trasposizione dell’originale di Carroll, ma acquistano un valore iniziatico fondamentale, così come i personaggi sono qualcosa di più di una semplice invenzione fantastica.