Volente o nolente, Nick Hornby torna sempre alla musica. Lo fa di continuo, e fa bene. Questa volta racconta una storia di coppia di quasi quarantenni di una cittadina inglese senza arte né parte (Gooleness) che trascinano una relazione stanca, senza comunicazione: Annie, ex insegnante ora dedita a organizzare una mostra sugli squali nel museo cittadino, e Duncan, che lavora all’università ma coltiva un’insana ossessione, la passione per un cantante sparito dalla scienza senza nessuna spiegazione da vent’anni, Tucker Crowe (descritto come un incrocio tra Leonard Cohen, Dylan e Bruce Springsteen): immaturo e infantile come molti personaggi maschili di Hornby, Duncan passa il suo tempo libero a dissertare via internet con altre poche decine di oltranzisti (i “crowelogisti”) sul loro cantante preferito, facendone una figura mitica e inserendo eventi e avvenimenti della sua vita inesistenti, raccolgono informazioni confuse (dalle stesse parole delle canzoni) e costruisconio quello che loro vogliono credere sia Tucker Crowe (amori mai vissuti, figli mai nati e una faccia che non è la sua, bensì quella del vicino di casa). Annie, almeno in apparenza, accetta passivamente questo “primo amore” del compagno e impara ad apprezzare a modo suo le canzoni del cantante americano, ma è costretta ad affrontarne gli aspetti più bizzarri, a partire da un viaggio in uno sperduto paesino del Montana per visitare i gabinetti di un locale in cui Tucker Crowe è stato prima di decidere di abbandonare le scene per sempre. La vita di coppia di Duncan e Annie è destinata però a cambiare radicalmente all’arrivo di un demo/versione acustica del più famoso album di Tucker Crowe, “Juliet”, intitolato “Juliet, Naked” (titolo originale anche del romanzo, misteriosamente tradotto “Tutta un’altra musica” dopo lo scempio perpetrato con “Slam”, tradotto “Tutto per una ragazza”). Convinta dello scarso valore di un prodotto embrionale e non paragonabile con una versione definitiva, Annie insiste per pubblicare sul sito curato da Duncan (dedicato al cantante) la sua recensione, del tutto diversa da quella entusiastica di lui, accecato dalla voglia di dimostrare che solo lui è in grado di comprenderne la grandezza (tra l’altro Duncan impazzisce di possessione e gelosia perché lei lo ha ascoltato per prima e la accusa di avergli fatto volontariamente del male). La recensione di Annie è talmente vera da attirare l’interesse del vero Tucker Crowe, che in America legge da tempo le riflessioni della manica di fanatici sulla sua vita e sulla valenza artistica della sua musica: risponde ad Annie e vuole conoscerla, in concomitanza con il tradimento di Duncan che decide di mettersi insieme a una collega dell’università docente del Corso avanzato di arti drammatiche (una specie di contraltare sentimentale al suo fanatismo musicale). Ben presto scopriamo che Crowe, a dispetto del suo statuto di rockstar maledetta, è ora un tranquillo pensionato dalle svariate mogli e con cinque figli di cui sa poco o nulla e con i quali ha seri problemi di relazione. Risponde ad Annie e vuole conoscerla, ma il momento del loro incontro coincide con il ricovero di Crowe per infarto mentre sta andando a trovare la figlia (che ha subito un aborto spontaneo). Un libro che è anche una riflessione sul desiderio di recuperare il tempo perduto e sul non voler vivere nel rimpianto, sulla necessità di fare i conti con la propria vita nella sensazione di aver perso la giovinezza inseguendo proiezioni, sulle illusioni e le aspettative con cui ci si costruisce miti fasulli e irreali (l’altro non è mai quello che noi vorremmo che sia, sia esso un cantante o il compagno di vita): è abbastanza significativo che la Juliet del titolo, ex fiamma attorno a cui gira tutta la vita di Tucker Crowe per i fanatici che lo seguono, è in realtà l’unica donna con cui lui non è andato a letto. Hornby lo fa con lo stesso garbo, l’ironia e lo stile che lo ha da sempre contraddistinto a partire da “Alta fedeltà”: chi ama la musica sa quanto possa essere vera una scena come quella di Duncan che piange ascoltando il nuovo disco con l’iPod mentre un passante lo guarda come se fosse un pervertito, o le pagine in cui viene descritto il mondo di internet, paradiso di sballati e teorici del complotto che si prendono dannatamente sul serio e sono disposti ad acclamare come capolavoro il più disgustoso b-side di un singolo per il mercato giapponese (da non perdere le ultime pagine in cui viene ricreata una favolosa discussione su un forum web). Tra l’altro, in alcuni punti (a partire dalla passione di Tucker Crowe per Charles Dickens) è possibile rintracciare echi delle recensioni scritte dallo stesso Hornby sul Believer e raccolte nei recenti “Una vita da lettore” e “Shakespeare scriveva per soldi”, segnale, questo, che ciò che leggiamo ci condiziona pesantemente.
Recensione pubblicata sul numero di maggio 2010 della rivista “Pianuraoggi”