giovedì 28 agosto 2008

Carolly Erickson - Il grande Enrico

Stimolato dalla visione della serie televisiva The Tudors, mi sono lanciato nella lettura di questa biografia del grande sovrano Enrico VIII, che regnò sull’Inghilterra tra il 1509 e il 1547. Fortunatamente l’autrice intende dare un’immagine diversa dagli stereotipi classici (tanto cari al cinema) del satiro tronfio e triviale con cosciotto di pollo in mano, che decapitava le mogli che non gli andavano più a genio (in realtà ne fece decapitare solo due). Piuttosto, Enrico era dotato di un finissimo intelletto e di una profonda erudizione scolastica che ne fecero ardente e vigoroso polemista, tanto da occuparsi personalmente di teologia (polemizzò personalmente con Lutero arrivando a insultarlo). Incredibile compagnone, era capace di fare a palle di neve con gli altri nobili; amante della musica e della poesia, autore lui stesosi di poesie e ballate, era un provetto ballerino tanto da danzare appassionatamente per ore; instancabile atleta e cacciatore, era cavaliere e duellatore ai tornei. Enrico VIII racchiudeva in sé il paradosso di essere portato istintivamente alla moda e alle arti rinascimentali e contemporaneamente ai valori medievali della cavalleria che gli umanisti invece aborrivano. Questo lo portò a inseguire per tutta la vita il sogno di dare battaglia agli odiati francesi: una fissazione anche al di là della realtà storica, perché ormai il centro dell’agone politico e bellico era l’Italia, terra di confronto tra Impero e Francia. Imparò dalla nonna a essere diffidente delle donne forti e dal padre a confondere l’uso e l’abuso del potere (il padre era spesso affetto da manie e malumori, se non da ire improvvise), oltre che l’amore per i divertimenti stravaganti, i buffoni e le creature circensi. Evento fondamentale della sua vita, la rottura con la Chiesa di Roma per la volontà di annullare il suo matrimonio con Caterina d’Aragona e sposare Anna Bolena. È probabile che Enrico credesse alle voci secondo cui il suo matrimonio con Caterina era maledetto perché in qualche modo incestuoso (Caterina aveva sposato in prime nozze il fratello di lui, Arturo, morto poco dopo), anzi, che ne fosse addirittura ossessionato. Non per niente continuò a stufarsi delle sue mogli (eccezion fatta per Jane Seymour, che morì di malattia) per la loro difficoltà di assicurargli una discendenza maschile. Egli negò dunque l’autorità del papa con un atto del parlamento (l’Atto di supremazia) che fece di lui, in quanto sovrano, il capo supremo della Chiesa inglese. Questa decisione, che portò alle condanne a morte del vescovo Fisher e dell’umanista Tommaso Moro (che pure era amico personale di Enrico), fu accettata con sorprendente condiscendenza dai Comuni, che poterono depredare le ricchezze ecclesiastiche e non pagare più le decime a Roma. Non bisogna dimenticare che il re, sobillato dal suo guardasigilli protestante Thomas Cromwell, comminò la tortura e l’impiccagione di moltissimi monaci, e la distruzione di monasteri e conventi. Anche nella violenza e nelle sanguinose repressioni si rivela un temperamento terribilmente competitivo che rendeva Enrico impegnato continuamente a misurarsi con gli altri sovrani, dal canto loro impegnati a sopprimere luterani e protestanti. Costretto ad affrontare la ribellione nel nord del paese, sobillata dai nobili che erano contrari al suo crescente potere autoritario, gradualmente il re si trasformò da figura luminosa e affascinante in un tiranno sempre più eccentrico e incupito, malfidente e timoroso: per il popolo divenne “il Talpone”, l’oscuro antieroe il cui avvento era stato predetto da Merlino secoli prima, colui che, rovinato dal peccato e dall’orgoglio, avrebbe trascinato nella rovina il suo regno. La Erickson è abile a descrivere le lotte politiche della corte inglese ma ha il pregio di risultare sempre leggera e comprensibile, raccontando curiosi particolari sulla vita del tempo, come quando parla delle pulci che affliggevano gli uomini dell’epoca (la gente teneva fascine di rami di gelso sotto il letto per tenerle lontane durante la notte, mentre il re Enrico VII girava di giorno con un ritaglio di pelliccia sotto la veste per attirare i parassiti tutti in un unico punto) o di malattie terribili come il sudore anglico (una malattia polmonare che colpiva senza preavviso e degenerava in maniera fulminante). Un mondo duro e difficile nel quale le conoscenze scientifiche lasciavano molto a desiderare (la regina Elisabetta, madre di Enrico, fu mandata a partorire negli appartamenti freddi e angusti della Torre di Londra, col risultato che ci rimise le penne). Molto bizzarra la descrizione della vita di corte, con banchetti da mille/millecinquecento persone, perfino fannulloni e vagabondi, cani e animali che si azzuffavano, oltre nobili che invitavano i loro amici e parenti e approfittavano in maniera oltraggiosa dell’ospitalità del re, portando con sé nei propri alloggi falconi e furetti, svuotando cucine e cantine, portando via tavole, panche e persino le serrature delle porte. Impagabile poi l’episodio dei sei gentiluomini che, educati alle abitudini acquisite in Francia, dove ogni giorno si erano divertiti a scorrazzare in compagnia del re Francesco I per le vie di Parigi tirando uova, sassi e quant’altro capitava addosso ai sudditi (!), rivolgendosi troppo cordialmente al re furono accusati di eccessiva esuberanza e di aver dimenticato quel deferente distacco che si doveva nei confronti del sovrano inglese.

mercoledì 27 agosto 2008

Jeanne Kalogridis - Alla corte dei Borgia

Quando la storia diventa un pretesto. Così si potrebbe riassumere il romanzo della Kalogridis, drammone storico a fosche tinte che rispolvera un tema intrigante e maledetto come la sanguinosa saga dei Borgia ma, prendendo per vere tutte le voci e dicerie sui suoi protagonisti, sfiora ripetutamente il ridicolo e finisce per risultare superficiale e facilone, senza una visione alle spalle (la famigerata Lucrezia Borgia è tratteggiata la contempo come strega e vittima, seduttrice e insicura). Basta l’inizio (la processione per il miracolo del  sangue di San Gennaro) per capire dove siamo capitati. Protagonista di tanto ben di Dio è Sancia d’Aragona, eroina abbastanza canonica e stereotipata, figlia di Alfonso II re di Napoli e nipote di Ferrante I: il primo un pazzo rancoroso e violento che non lesina occasione per punire e umiliare la figlia, il secondo un tipetto che suole tenere una camera con appesi i cadaveri dei suoi nemici. Naturalmente, con questo dna, anche Sancia non può dirsi del tutto normale (nonostante il morboso attaccamento al fratello Alfonso), e dichiara sin dalle prime pagine di essere fatta della stessa “pasta” della sua famiglia. Viene promessa in sposa, adolescente, al nobile Onorato Caetani, che la inizia alle gioie del sesso, quindi viene costretta a sposare Goffredo Borgia, ultimo e smidollato figlio di Rodrigo Borgia, al secolo papa Alessandro VI (in realtà, Goffredo non è figlio suo, ma della sua amante Vannozza Catanei), con lo scopo di migliorare le relazioni tra Napoli e Roma. Sull’intera vicenda grava il monito di una strega che Sancia consulta in quel di Napoli a proposito del suo futuro (“senza usare il male condannerai a morte quelli che ami di più”). Incredibile la scena della prima notte di nozze, con l’atto coniugale fatto oggetto di scommesse da parte di Alfonso (il padre di Sancia) e il legato papale, anch’egli un Borgia, che dimostra ben presto la sua natura perversa violentando un bambino nell’orgia che segue i festeggiamenti. Il papa intanto, nonostante la profusione di sentimenti, tradisce il regno di Napoli consegnandolo ai francesi di Carlo VIII, mentre Alfonso II impazzisce e fugge dalla città portando con sé il tesoro della corona. Durante l’assedio, Sancia uccide con uno stiletto una guardia e prova a sé stessa di essere malvagia perché capisce che uccidere è molto facile. Il padre è sempre più sprofondato nella pazzia e si impicca, Sancia viene chiamata a Roma insieme al marito alla corte papale (il lussurioso Alessandro ha infatti udito che è molto bella e spera di farsela amante). A questo punto scopriamo tutta la depravazione della famiglia Borgia: sua santità fornica pubblicamente con le cortigiane e si ubriaca sena ritegno, sua figlia Lucrezia non esita a offrigli le grazie del suo corpo durante una laida orgia e in seguito si concede a lui anche carnalmente. E non può mancare il mitico Cesare Borgia, il Valentino, amante perfetto e quindi completamente diverso dal debosciato Goffredo: Sancia non prova nemmeno a resistergli, e i dettagli dell’accoppiamento sono descritti minuziosamente in stile softcore. Purtroppo c’è anche un altro fratello, Giovanni, che in seguito a un rifiuto la violenta su due piedi, ed è capace a far impiccare un nobile reo di aver risposto con ironia a una sua provocazione. La povera Sancia scopre che Lucrezia è incita: pensa del padre, ma poi scopre di Cesare (gli incesti non si contano neanche più). Giovanni viene barbaramente pugnalato e gettato nel Tevere (non è un mistero che il colpevole sia Cesare, desideroso di vendicarsi dell’affronto fatto a Sancia ma anche desideroso della sua carica di capitano generale; non pago, Cesare incolpa della gravidanza della sorella un povero domestico, che non esita a sgozzare sul trono papale e a gettare anch’esso nel Tevere (assieme a una domestica di Lucrezia che, ovviamente, sapeva troppo per essere lasciata tranquilla). Lucrezia, che intanto ha perso il bambino, viene fatta sposare con Alfonso, mentre Sancia rifiuta le profferte di matrimonio di Cesare perché scandalizzata di lui, tra l’altro colpito dalla sifilide; questi, sposata una principessa francese e con l’aiuto del padre e l’appoggio del re di Francia, comincia a crearsi un suo potentato autonomo nel Centro Italia ricorrendo alle armi e al veleno, e decide di vendicarsi di Sancia, di Napoli e degli Aragonesi, facendo uccidere Alfonso con la complicità della stessa Lucrezia. A questo punto Sancia, sull’orlo della pazzia, prende la risoluzione di fare giustizia, avvelena il papa e lo stesso Cesare: il primo muore, il secondo sopravvive ma senza la protezione del padre non ha più potere. Un finale tragicomico da melodramma di cartapesta che gronda sangue e perversione, non senza averci regalato l’allucinante descrizione di Machiavelli che scrive istericamente sotto la tavola tutto quello che sente dire da Cesare Borgia, o perle del tipo: “Mentre tenevo la mano sulla sua guancia calda giurai che non avrei mai permesso che proprio suo padre lo facesse becco”.

giovedì 21 agosto 2008

Clive Staples Lewis - Il principe Caspian

In occasione dell’uscita del secondo film della saga delle Cronache di Narnia, mi sono riaccostato all’opera fantasy di Lewis, di cui avevo avuto modo di apprezzare i primi due episodi. Questo capitolo si pone direttamente in continuità con Il leone, la strega e l’armadio, anzi, comincia là dove quello si era fermato: è passato un anno da quando i quattro fratelli Pevensie (Peter, Edmund, Susan e Lucy) sono entrati, attraverso il famoso armadio, nel mondo di Narnia. Sta per ricominciare la scuola, e i ragazzi sono in una stazione ferroviaria di campagna ad attendere i treni che li porteranno a destinazione: i maschi in una scuola, le femmine in un’altra, secondo gli usi del tempo. ma improvvisamente Lucy (la prima a entrare attraverso l’armadio nel libro precedente) si sente trascinare via da una forza invisibile, e grida. È Edmund a comprendere che sta per accadere qualcosa di magico, e invita gli altri a restare tutti uniti. In pochi istanti il binario, i bagagli, la stazione stessa si volatilizzano e i ragazzi, impauriti, si ritrovano nel mezzo di una foresta. Cominciano a muoversi per Narnia, e giungono nientemeno che alle rovine di Cair Paravel, il castello nel quale avevano regnato nell’età dell’oro di quella terra. Salvano poi dalle grinfie di due guardie uno gnomo, Trumpkin, che racconta loro come le cose sono molto cambiate, e che molta della vecchia magia è scomparsa. Innanzitutto sono passati ben mille anni (nel tempo narniano) dalla loro precedente venuta, e che Narnia è stata conquistata dai Telmarin, malvagi esseri umani provenienti dall’altra parte del mare, i quali hanno sterminato gli animali parlanti e le creature magiche, costringendo i pochi rimasti a vivere nascosti. Gli stessi quattro re (i fratelli Pevensie) sono ormai un ricordo per gli abitanti di Narnia, quasi una leggenda raccontata dai poeti. Ma proprio dai Telmarin sorge un eroe tredicenne, Caspian, nipote del perfido re Miraz, usurpatore del potere, che ascoltando da una sua tutrice dei racconti sulla vecchia Narnia, prova un sentimento di nostalgia e di rimpianto per quel mondo antico. Viene quindi affidato a un istitutore, il dottor Cornelius, una buffa figura metà uomo e metà gnomo, che progressivamente si affeziona al ragazzo e, stimolato dalle sue domande e dalla sua passione per la storia, comincia a raccontargli le antiche vicende di Narnia, dei suoi valorosi antenati, e dei quattro ragazzi predestinati che giunsero un giorno a sconfiggere la Strega Bianca. Gli parla anche del mitico leone Aslan, cosa che nessuno aveva fatto in precedenza, e mettendo a rischio la sua stessa vita, rivela che Miraz è un usurpatore, che ha ucciso anni prima il padre di Caspian, e che governa Narnia come un despota, progettando di eliminare anche lui prima che possa raggiungere la maggiore età e rappresentare un pericolo. Cornelius, che vede nel cuore di Caspian e ha compreso quanta virtù vi sia in lui, lo fa fuggire dal castello consegnandogli una preziosa reliquia: il corno appartenuto, secoli prima, alla regina Susan. Caspian cerca quindi di ritrovare, nei boschi, le poche creature rimaste dall’età dell’oro, e di unirsi a esse per tentare di riportare quella terra al suo antico splendore, e suona il corno, che riporta a Narnia i fratelli Pevensie, richiamati da una misteriosa forza per aiutare Caspian a cacciare dal trono re Miraz. Naturalmente, i nostri eroi potranno contare sull’aiuto di Aslan, che all’inizio sembra essere sparito e non parlare più agli abitanti di Narnia, tanto che molti credono sia solo una leggenda (interessante questo particolare sul silenzio di Dio nella storia): è Lucy a non smettere mai di credere in lui e a ritrovarlo. Ancora una volta, come nel Signore degli Anelli, a opporsi contro il male è la follia secondo il mondo: quattro ragazzi, un principe appena adolescente, degli gnomi e un topo moschettiere di nome Ricipì, un concentrato di coraggio e determinazione. Spassoso l’episodio in cui quest’ultimo rivolge una supplica ad Aslan perché gli procuri una nuova coda dopo aver perso la sua in battaglia: il grande leone è perplesso, perché pensa si tratti di un piccolo peccato d’orgoglio, ma quanto tutti i topi suoi compagni si dicono pronti a tagliare le proprie code per evitare che il loro capo si senta umiliato nei loro confronti, Aslan rimane colpito da tanta lealtà e solidarietà da convincersi a ridonare la coda a Ricipì. Con Caspian, Lewis realizza un personaggio che riassume gran parte delle caratteristiche dell’eroe antico, del cavaliere, del predestinato, di colui che è chiamato a riportare l’ordine e la giustizia, a combattere per il bene contro il male, disposto a mettere a repentaglio la sua vita pur di fare del bene. Un ideale forse criticabile, ma profondamente inserito nell’etica cavalleresca cristiana. A dire la verità, il film è riuscito a fare anche meglio, inserendo nella sceneggiatura temi molto profondi e maturi che nel libro sono addirittura assenti, quali l’orgoglio di Peter che, accecato dalla sua missione, attacca il castello di Miraz e a riporta una desolante sconfitta, e la violenta competizione tra Peter e Caspian, con quest’ultimo che è disposto a evocare la Strega Bianca pur di avere la meglio sul rivale. Ancora una volta, mi sento di consigliare obbligatoriamente l’edizione con le splendide illustrazioni realizzate da Pauline Baynes, recentemente scomparsa.