martedì 22 maggio 2007

John King - Fuori casa

Allo stadio di Berlino, si disputa l’amichevole Germania-Inghilterra e per un migliaio di hooligans britannici è un pretesto per varcare la Manica e per concedersi un’indimenticabile trasferta fatta di sesso, droga e violenza. E così, al grido di “Due guerre e una Coppa Rimet”, gli hooligans attraversano la Manica sfasciando i traghetti, vomitano sulle turiste, fanno tappa ad Amsterdam impazzando nel quartiere a luci rosse, e tengono in scacco la polizia locale dando alle fiamme tre automobili. Ad aspettarli un reggimento di naziskin armati di tirapugni e mazze da baseball. In mezzo a tutto questo, il protagonista Tom, che vive quest’esperienza come un dovere, in nome di un codice virile da rispettare, ed Harry, che partecipa alla trasferta per superare la perdita di un amico morto sugli spalti ma che finisce imbarcato in avventure sessuali paradossali: prima con una prostituta thailandese, di cui si innamora inspiegabilmente, poi con una gnocca conosciuta sul traghetto che si rivela essere una ninfomane violenta. E in questo modo riesce a elaborare il lutto per la morte del suo migliore amico, aprendosi a una concezione meno ristretta del mondo. La cosa strana è la prospettiva di questi personaggi, che vedono nella trasferta della nazionale una specie di viaggio iniziatico, capace di trasformare la loro miserabile vita fatta di lavoro, frustrazioni e pestaggi, in un happening collettivo, capace di unire tutti, al di là delle differenze e degli odi locali (i protagonisti sono ultrà del Chelsea, e in patria odiano fino alla morte quasi tutti gli avversari). Perché, questa volta, in discussione c’è l’onore nazionale, una superiorità che va difesa a ogni costo: la razza guerriera degli inglesi deve far pagare ai tedeschi i gas asfissianti della prima guerra mondiale e i bombardamenti della seconda, oltre che inscenare una grandiosa replica dello sbarco in Normandia. Non per niente c’è un altro personaggio, il vecchio Bill, che allo sbarco in Normandia ha partecipato davvero, e che ripensa alla guerra e al dopoguerra, ai volti del dolore e della solidarietà, e decide di intraprendere un simbolico viaggio in Australia dove si è stabilito suo nipote. Il calcio è una guerra, è una metafora della vita, e le guerre sono tutte uguali (siano fatte con le armi o con un pallone). È l’essere inglesi il collante, la consapevolezza di essere diversi, più umani nonostante l’essere hooligan, perché i nazisti erano altri, erano loro a fare il male. E, inoltre, essere inglesi significa essere contro l’Europa, perché in Europa ci stanno i banchieri dell’Unione Europea, gli stessi che hanno dato origine al fascismo, o i subumani spagnoli e italiani. Gli inglesi sono isolani, non europei. È buffo leggere dell’hooligan che davanti alla casa di Anna Frank pensa che i nazisti gassavano gli ebrei, e che gli ebrei sono i tifosi dell’Ajax e del Tottenham, cioè coloro che lui odia. In fondo, un barlume di umanità. Un libro strano, di cui mi sfugge in fondo l’obiettivo (chi può credere alle tesi sostenute da chi scrive in prima persona, soprattutto considerando che alla fine la guerra si trasforma in un videogioco, quello a cui gioca Harry?), strutturato però con una certa inventiva. Certo, le parti di Bill che ricorda la guerra sono troppo lunghe, però ho apprezzato il fatto di aver evitato nella traduzione tutti i congiuntivi sostituendoli con l’imperfetto, rende molto bene il tono dei personaggi. Alla fine credo si tratti solo di una gigantesca presa in giro caricaturale.

venerdì 11 maggio 2007

Umberto Eco - Il nome della rosa

È la terza volta che leggo questo libro e ogni volta vengo colto da una gioia quasi fisica nel farlo. Non esito a definire Il nome della rosa un capolavoro, forse quanto di più si avvicina alla concezione di “libro perfetto”. Giallo, romanzo storico, racconto ideologico a chiave, trattato religioso: chi può dire a quale genere appartiene? Il segreto del suo successo è la molteplicità di piani che esso investe e che lo fa piacere a tutti. C’è chi sarà attratto dalla trama e dai colpi di scena, chi si appassionerà ai lunghi dialoghi filosofici e ai dibattiti teologici sulle donne corruttrici e sul conflitto carità/povertà, chi sarà incantato dalle invenzioni geniali (il monaco Salvatore in grado di parlare tutte le lingue insieme). Il bello è che nulla viene lasciato al caso, tutto concorre al disvelamento finale. La trama è arcinota: il frate francescano ed ex inquisitore Guglielmo da Baskerville e il novizio benedettino Adso da Melk si recano ad un monastero benedettino posto tra i monti dell’Italia settentrionale, sede neutrale di un delicato convegno che vedrà protagonisti i francescani, sostenitori delle tesi pauperistiche e alleati dell’imperatore, e i loro nemici della curia papale insediata a quei tempi ad Avignone. L’abate locale è però preoccupato dall’improvvisa e inspiegabile morte di un confratello. Nonostante la quasi totale libertà di movimento concessa a Guglielmo, le morti si susseguono e sembrano tutte ruotare attorno alla biblioteca, vanto e onore del monastero, e ad un misterioso manoscritto. La situazione è complicata dall’imminente convegno e dalla scoperta, fatta dall’inquisitore Bernardo Gui, di due eretici della setta dei Dolciniani profughi presso l’ordine dei Benedettini (il cellario e il suo aiutante Salvatore). In realtà, Il nome della rosa è un trattato di semiologia abilmente camuffato. Al centro dell’opera sta il problema della conoscenza, rappresentato dal secondo libro della Poetica di Aristotele, quello che parla della commedia, ovvero “del bello che induce al riso”. Testo perduto, e occultato per necessità dal monaco pazzo Jorge da Burgos (il cui nome e il suo legame con la cecità, la biblioteca e il labirinto alludono senza troppo mistero allo scrittore argentino Jorge Luis Borges), perché in grado di liberare l’uomo dalla paura del diavolo e della morte. Un centro dunque “vuoto”, attorno a cui si svolge tutto il discorso sulla conoscenza (i suoi limiti, i suoi confini, le sue categorie). Lo stesso Guglielmo, che basa la sua indagine sui delitti unicamente sugli strumenti della ragione, nel corso degli avvenimenti non è più interessato a scoprire il colpevole, quanto piuttosto a raggiungere la conoscenza segreta racchiusa nel libro aristotelico. Guglielmo diventa così un antesignano dei moderni scienziati, per i quali il progresso della scienza stessa viene prima di ogni altra cosa. Anche l’inevitabile conflitto con il vecchio Jorge rientra in questo schema, poiché l’ex bibliotecario viene a impersonare quei limiti che la religione intende imporre al libero corso della ricerca. Umberto Eco è un semiologo, e ritiene che la conoscenza si strutturi essenzialmente in termini “semantici”, ovvero attraverso dei “segni” attraverso cui conoscenza viene veicolata conto che questo testo è un tessuto di altri tesi, un “giallo” di citazioni, un libro fatto di libri (il discorso di Guglielmo “i libri, spesso, parlano di altri libri”). La filosofia di Guglielmo di Occam (su cui si basa Guglielmo da Baskerville) è il nominalismo relativista secondo cui si conoscono soltanto le realtà individuali (questo cavallo, quest’uomo), mentre i presunti “universali” (l’uomo, il cavallo) sono semplici segni che servono a connotare (cioè a “notare insieme”) gruppi di realtà individuali, di cui esprimono (peraltro in modo incerto e impreciso) qualche generale rassomiglianza. All’inizio del romanzo, in una scena degna di Sherlock Holmes, Guglielmo stupisce i suoi interlocutori descrivendo nei più minuti particolari, da qualche tenue traccia, un cavallo che non ha mai visto; quando Adso gli chiede come ha fatto, risponde con una lezione di occamismo, spiegando che “tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un’idea universale”. Cioè ha scelto la traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono “puri segni”, ed è così pervenuto alla conoscenza piena, che è l’intuizione del singolare. È grazie alla nuova logica di Occam che Guglielmo da Baskerville risolve gli enigmi dell’abbazia, mentre il tomista Bernardo Gui, che ragiona per universali, segue piste false (e per questo condanna degli innocenti); ed è con un motto nominalista che il romanzo si chiude: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”, ovvero “La rosa originaria – la presunta essenza della rosa – consiste in un nome, noi non abbiamo che nudi nomi”. Le conseguenze del nominalismo occamista sono quindi gravi: se si conosce soltanto l’individuale, ogni presunta verità che vada al di là di esso è del tutto arbitraria, quindi, in definitiva, la verità non esiste, come per altro ammesso candidamente da Guglielmo. Ed è qui che si vede la provocazione di Eco: fuori dal relativismo scettico c’è solo il diavolo, che si esprime nell’intolleranza dei roghi e che deve essere combattuto. Ovvero: leggere il Medioevo secondo logiche presenti. Non il massimo, ma per una volta glielo perdoniamo.

martedì 1 maggio 2007

Kathy Reichs - Ossario

Montreal: il corpo di un presunto omicida viene rinvenuto nello sgabuzzino di una baita di campagna. Sono trascorsi diversi giorni dalla morte dell’uomo e i gatti hanno fatto scempio del lato sinistro del suo viso. L’antropologa forense Temperance Brennan, chiamata ad interpretare le lesioni rinvenute sul corpo, riceve da uno sconosciuto la foto di uno scheletro. In un inglese approssimativo, le lascia intendere che la chiave per la risoluzione del caso sta tutta lì. Animata dalla consueta perizia investigativa e coadiuvata dal fidanzato/detective Andrew Ryan e dall’archeologo Jake Drum, Tempe accerta che le ossa ritratte nella foto appartengono ad un insieme di resti rinvenuti negli anni ’60 in una grotta nei pressi di Masada, luogo che conserva i resti dell’ultima postazione tenuta dagli ebrei zeloti nella rivolta contro la dominazione romana (66-73 d.C.). Parte quindi per Israele, dove si ritrova davanti a un sudario che pone molti interrogativi: quel corpo è di Gesù? Può essere quello il sepolcro della sacra famiglia? O si tratta semplicemente di una complessa mistificazione ben architettata? O, peggio ancora, si tratta di una serie di teorie che ha spinto qualcuno a compiere un delitto (tanto più che tutti gli indizi portano al traffico di reperti archeologici)? Proprio qui a mio giudizio sta il valore del libro. L’idea della cospirazione religiosa, oggi tanto di moda (basta pensare alla pseudoletteratura nata dal successo del Codice da Vinci), sta in piedi proprio perché qualcuno la ritiene reale (non come accade negli odierni thriller fanta-religiosi!), e per di più il reale movente dell’omicidio è personale e non di certo parareligioso. Per il resto, è un thriller ben scritto, scorrevole, pieno di dialoghi (anche molto acidi), molto particolareggiato e dettagliato da punto di vista scientifico-antropologico. Certo, l’eroina della Reichs è una specie di copia di Kay Scarpetta di Patricia Cornwell, e il ritmo in generale latita, ma ci si passa volentieri sopra. Il problema è il solito: la conclusione, troppo affrettata per un romanzo dalla trama così contorta, surreale ma suggestiva allo stesso tempo. La cosa migliore è il volatile prelevato dalla buoncostume che Ryan regala a Tempe, che canta tutto il tempo canzoni da locale sconcio… un particolare geniale!